Il primo pomeriggio, di un giorno di metà marzo, il sole irrompe esuberante nelle nostre vite, ancora assopite dallo scorso inverno. L’aria è calda. Siccome ho dovuto fare una corsa per prendere l’autobus, provo la stizza degli opportunisti nei confronti del mio giubbino imbottito: buono quando fa freddo, ma noioso se il freddo non c’è più. Salgo sul bus e mi siedo. Dopo un po’ arriva una ragazza con il suo fidanzato e si siede davanti a me. Mi guarda, anzi cerca qualcosa nei miei occhi. Il fidanzato mi siede accanto. Ad occupare i quattro posti ci siamo noi e c’è una signora, che siede vicino alla ragazza. La donna ha circa 70 anni, non ci guarda, o meglio, ci sente, guardando fuori dal finestrino. Il suo atteggiamento suggerisce un carattere contraddistinto da una serietà vaga e mesta al tempo stesso. Mi volto verso di lei infastidita. Smetto quando lo scambio di sguardi prende i toni della polemica. Giunta a destinazione, la signora anziana scende. La osservo dal finestrino togliersi la mascherina e mostrare un sorriso disteso. Mi accorgo che indossa dei jeans e una camicia a fiori, sono un po’ dispiaciuta di non aver conversato in silenzio con lei. Poiché si è liberato il posto, la ragazza fa cenno al fidanzato di spostarsi. Parlano tra loro, ma lei continua a guardarmi con i suoi occhi verdi. Ha 22 o 23 anni. Lui è un broccolo, che si finge sicuro di sé. In realtà, è la compagna a spiegargli il tragitto da fare e i mezzi da prendere.
Ho la sensazione che la giovane vorrebbe dirmi qualcosa. Dal suo sguardo trapela una curiosità non banale, poco incline a porre domande del tipo: dove abiti e quanti anni hai. No, vuole andare alla sostanza, chiedere come ho vissuto in questi 51 anni, chi sono stata e chi sono ora. Intanto un gruppo di liceali prende la scena. Le ragazzine parlano a voce alta, raccontando della verifica di greco. Apprendiamo che una di loro ha ottenuto un buon voto e ora lo dice alla madre per telefono. Si capisce che la donna, dall’altra parte della cornetta, vuole conoscere i risultati di tutti gli altri compagni di classe, per sapere se è stata fatta giustizia. Concetto ripreso più volte anche dalle ragazzine, le quali, leggendo i messaggi dei compagni, gioiscono se Tizio e Caio hanno preso un votaccio. Io e l’altra ci guardiamo e ridiamo. Le ragazzine continuano a chattare e ad esultare per i fallimenti altrui. Sui loro visetti vispi non c’è traccia del passaggio del tempo. Ritengo che questa variante della specie umana sia davvero pericolosa, questo vorrei dire alla mia dirimpettaia, anche per suscitare ilarità, affinché mi consideri spiritosa, oltre che interessante da osservare. Io e lei abbiamo poco in comune, sia per quanto riguarda l’età sia per le fattezze. Escludo un paragone con l’aspetto che ho adesso, parlo di quando avevo la sua età. Eppure mi ha riconosciuta. Sarà per quello che dovrà essere, non per quello che è stata. Forse le rimando la sua immagine tra 30 anni. Scrutando i miei occhi, vorrebbe sapere cosa le accadrà, se sarà felice, quali pensieri le impediranno di dormire e, se ne avrà, di che entità saranno i dispiaceri. In prossimità della fermata il fidanzato allunga il collo, si gira verso di lei e le dice che devono scendere, dando una prova, almeno una, della sicurezza che ha sfoggiato prima. Scendono. Lei si volta per guardarmi, io faccio finta di non aver notato il suo saluto, ma sono compiaciuta. Però, non ho saputo rispondere alle sue domande.
Una volta tornata a casa ho ripassato nella mente la conversazione muta avuta nell’autobus 223, direzione la Giustiniana. Per me oggi è stato un giorno speciale, uno di quei giorni che mi piacciono. Dovrebbe succedere più spesso. Tra poco, invece, passerà la mega domestica e pulirà, senza lasciare traccia del vissuto delle persone che hanno abitato il presente. Lo trasformerà in giorni che si susseguono nel calendario, riportando tutto alla normalità. Il donnone strapperà una pagina perchè sarà passato un mese e così via. Come pulisce una casa, togliendo gli odori, la patina di unto dalla cucina, risultato di pietanze calde preparate con amore, così la mega domestica generale elimina i segni personalissimi del nostro vivere in questo mondo. Lo fa in nome di una norma esemplare che dobbiamo osservare scrupolosamente. Non che una casa sporca sia il riflesso di una vita felice, ma ricordarsi di ciò che eravamo mentre la sporcavamo, questo si che rischia di andare perduto.
Poiché suona falso quel giudizio di valore tarato sull’assenza di ogni macchia e di ogni odore che rileva la presenza umana, ridotta così al rango di fronzolo dell’esistenza di ciascuno. Questa è la risposta. La domanda, invece, rimane vaga, non ben formulata. Al mattino apro il cassetto, in cui trovo le solite cose da mettere per andare a lavoro. Insieme con loro indosso una lingua fatta di convenevoli per dire tutto e niente. In questo tutto e in questo niente si dimentica di respirare. Un bel respiro, di quelli profondi che muovono le fronde degli alberi. In fondo cos’è un respiro? E’ un gesto scontato, semplice. Qualcosa che abbiamo nel cassetto, in un angolo, come una foto in bianco e nero. Un respiro grande è simile a quell’incontro sul bus nel tran tran quotidiano: una risposta chiara a una domanda che si inabissa sul limite della coscienza, come un sole ardente pronto a rinascere.
Era l’estate del 1984. Mi ricordo una stradina di paese e un vicolo assolato. Andavo in bicicletta e c’era sempre il sole. Non faceva caldo, oppure non lo ricordo come un fatto saliente. Invece, ricordo la luce onnipresente in tutto quello che riguarda l’estate degli anni passati. Sull’infanzia, gli unici ricordi di sera sono legati alle bancarelle di piazza Navona, nel periodo natalizio. Solo da adulta ho iniziato a collezionare momenti da rivivere che si svolgono dopo il tramonto, perlopiù associati a giorni anonimi. Percorrendo in lungo e in largo la città, alla ricerca di un futuro da costruire, non posso dimenticare le vie del centro lastricate di sampietrini bagnati dall’umidità. Con l’immaginazione accesa dalle promesse della vita, le strade si popolavano di pattinatori danzanti e sarebbero state il set perfetto di quei quadri popolati a loro volta da danzatori eleganti, ombrelli, camerieri e un senso di solitudine da capire.
Un salto temporale di 38 anni mi riporta al presente. Perché riappare la me stessa di tanti anni fa, cosa vuole dirmi?
Il tempo trascorre e lo fa in modo insolito. Lui passa ed io, supinamente, lo assecondo. Il calendario è pieno di impegni da rispettare, ho la sensazione di stare all’interno di una clessidra, la sabbia mi cade addosso, riempiendomi gli occhi e la bocca. Le solite cosa da fare, sommate al frenetico trambusto cittadino, sono diventate il sottofondo quasi inudibile del reale svolgersi del tempo. Gente che va di qua e di là, parole su parole dappertutto: sul tram, al telefonino, in tv, nei video. Niente di tutto questo mi ha più coinvolto nel suo turbinio da quando ho azzerato il contachilometri della mia vita e sono ripartita, senza subire passivamente il giro inesorabile delle lancette.
Un giorno come tanti mi sono svegliata ritrovandomi sola, muovendo i primi passi nel mondo come se fossi stata la prima donna sulla terra. Intorno non c’era nessuno, soltanto un albero spoglio, che si stagliava nel cielo rosso infuocato dal sole, in un’ora vaga del giorno. Era lo stesso tempo dell’apparizione di quella ragazzina. Eva si deve essere sentita sola, questo è certo, perché lo era, ma anche estremamente curiosa di conoscere e piena di meraviglia, così come mi sono sentita io. Nel luogo dove mi sono svegliata non c’era la famiglia, non c’erano sensi di colpa o rimproveri. Anzi, non c’era nessuno, solo lei, cioè me stessa di tanti anni fa. L’ho guardata muoversi nel mondo, che aveva appena dato l’addio ai dinosauri. Lei era l’interno di un uovo schiuso, mi inteneriva e ne ero felice, per il piacere che dà ogni principio. I colori del cielo fattosi primordiale significavano niente, erano un’alterità assoluta. In tal modo emergeva la straniera, girovaga nelle lande sconosciute che ora chiedeva la ribalta. Chiedeva di essere la protagonista della mia vita.
Ora in tuta, maglietta e stivali esploro un tratto di campagna come fosse la prima volta. La felicità che provo nel farlo dipende anche dal fatto che qui ho camminato tante volte, ottenendo spesso lo stesso risultato. Perché questa volta mi abbia reso felice non so. Forse è l’effetto della bella giornata di sole, dell’aria tiepida o del colore verde scuro delle olive sugli alberi. Il finocchio selvatico un po’ ingiallito e lo svolazzare di insetti pigri restituiscono morbidezza all’aria fresca. Sarà la contentezza di essere a casa mia. Ogni volta c’è un motivo diverso. Io mi adatto all’ambiente, sentendomi una pianta tra le piante. In fondo, penso che la ragione più importante sia il potere degli spazi aperti, che nobilitano il sentimento della solitudine, mai preso in considerazione nella sua reale importanza. L’essere soli è una condizione comune a tutti. C’è stata un’idea o predisposizione mentale che mi ha condizionato a lungo. In tempi passati pensavo, infatti, che la solitudine fosse un difetto da rimuovere e che fosse anche doveroso aprirsi all’altro. L’impegno costante di fuggire la solitudine ha avuto delle conseguenze e dato l’avvio a numerose disavventure. Quella che ricordo d’emblée è lo stare nella parte sbagliata della tavolata. In pizzeria, con gli amici, scrutavo la disposizione delle persone attorno al tavolo, per capire dove dovevo mettermi, se stare tra quelli più brillanti o cenare in silenzio tra tutti gli altri. Invece, una delle conseguenze più importanti della fuga dalla solitudine è stata la ricerca instancabile di qualcuno con cui condividere le sensazioni che provavo davanti agli spettacoli naturali. Se non ci riuscivo o non potevo farlo significava che esse non valevano o erano addirittura inopportune. Volevo darle a qualcun altro. Il fatto che fossero mie e rimanessero tali, senza spostarsi in qua e in là come pacchi postali, non mi bastava. Così ho trascorso del tempo a riempire e svuotare serbatoi interiori di emozioni e intuizioni fugaci. Esse transitavano in lungo e in largo da me a parenti, amici e compagni, evitando che sentissi veramente ciò che stavo osservando con gli occhi. Ho cercato a lungo qualcuno che provasse quello che provavo io, nello stesso modo, con la stessa intensità e non l’ho trovato. Ora capisco, non volevo accettare la solitudine di un’immagine sola, cioè solitaria. Era un’immagine imperante, la quale, espandendosi, colmava il vuoto che creava. Un vuoto diverso da quello che c’era già, peraltro di tutt’altra marca.
Questo tramonto incide una linea di colore rosa scuro nel cielo. Finalmente sta in pace, senza nessuno che lo solletichi per fargli dire qualcosa. La luce affonda oltre l’orizzonte, bussando alla porta di un sentimento primordiale. Così come è lo vedo solo io. Il silenzio di un tramonto, il suo linguaggio muto si fanno spazio dentro di me. Con l’animo insaziabile, mi sono chiesta spesso se ci fosse tanta vita o poca vita nella mia. Gli sforzi nobili e la fatica compiuta senza risparmiarmi mi davano l’impressione di aggiungerne a dismisura, quasi a volerne fare scorta. Un’accumulatrice compulsiva di vita, ecco cos’ero. E poi ho corso tanto, per andarmela a prendere. Volevo più vita, ancora di più. Lei, dal canto suo, scorreva nella giusta misura. Sì, scorreva nella realtà di una luce particolare del giorno e nei sui colori, come sangue nelle vene. Così posso pensare che quella via di paese assolata, percorsa nell’estate da ragazzina, le strade umide di sera al centro della città, ma anche la striscia color rosa scuro del tramonto siano organi del corpo-meraviglia. Quando racconto a qualcuno: ‘Sai, oggi ho visto un tramonto’, l’altro capisce il tramonto convenzionale, quello vero per me è diverso. Quanto tempo passerà da adesso che lo comprendo a quando saprò dirlo con parole nuove, tutte mie, questo non so.
Mi gusto l’intuizione della vita nel suo rinascere e fluire come acqua di sorgente. Ma siamo sicuri che finire e ricominciare siano le parole giuste? Di solito attribuiamo azioni logiche alla natura, ma, in sostanza, sono solo proiezioni. La vita inscalfibile è semplice come le cose che esistono senza essere pensate. E’concretezza e trascendenza al tempo stesso. L’ho capito perché mi è apparso, ma ancora non so dirlo.
Il raccordo anulare a quest’ora è un forno lungo 68 chilometri e 200 metri. L’asfalto bolle, le macchine mi sfrecciano accanto, 80 km/h e sto. Sì, viaggio sulla corsia di destra, andamento costante. Guido, oggi è sabato. Domani mi sveglierò, farò colazione e aprirò il pc per leggere la posta elettronica, se no mi si intasa la casella. Sessanta mail non lette, mi si dirà. Trattasi di pubblicità, le dovrò cancellare. Poi guarderò i numeri del superenalotto. Ce li avrò tutti e 6. Avrò vinto 250 milioni di euro. Da tempo preparo nella mia mente un piano dettagliato per sviare qualsiasi sospetto sul vincitore o vincitrice della somma stratosferica. Per prima cosa bisogna mantenere un profilo basso, come va di moda dire adesso. Perciò, niente feste, né manifestazioni improvvise di gioia. Ostentare è sconsigliato, oltre che poco elegante. E’ necessario preservare la segretezza sui fatti che ci accadono, privacy in inglese, ci trova tutti d’accordo. Prima di andare al tabaccaio, se andrò al tabaccaio, passerò dal parrucchiere cinese, che non fa problemi di appuntamenti e con 30 euro mi farò la tinta. Non voglio essere riconosciuta. Anzi, non andrò al tabaccaio, prenderò appuntamento direttamente con l’ufficio preposto. Ci andrò con il taxi, senza dare nell’occhio, per una volta si può prendere il taxi, ci può stare. Intanto manterrò la faccia di sempre, sulla scazzato andante e non farò nessuna spesa che potrebbe destare sospetti, anche perché prima li vorrò vedere sul conto corrente e poi se ne parlerà.
Uscita Aurelia 8 minuti, il cartello sul GRA dice che mancano 8 minuti all’uscita Aurelia. Ho la macchina carica di attrezzi per la campagna e di pensieri, come al solito. Propongo orti da coltivare a gente che vuole tornare in armonia con la natura e lo vuole fare subito, salpando dalla macchina nel lembo di terra prescelto in ciabatte e lamentandosi perché ci sono gli insetti. Armonia, dicono loro, come se fosse una cosa che si ordina su internet e poi arriva direttamente a casa, tutta integra. Armonia, dico io, lontana eco, persa nel momento del passaggio dall’istinto alla ragione, che poi io non ne faccio un uso sempre appropriato. Incertezza, cosa fare? Non t’aiuta l’istinto, a volte, nemmeno la ragione. Ecco, bel cavolo di capolavoro.
Oggi è domenica. Sveglia e colazione, leggo i 6 numeri in fila. Questi sono quelli, cioè i miei sono gli stessi. Va be’, mi sono capita. Rileggo, per sicurezza. Sono loro, ho vinto 250 milioni di euro. Vado dai gatti, allora. Che faccio? Ci devo andare, hanno solo me. Io ho tutti questi soldi, ma chi trovo adesso per sostituirmi, ad agosto, di domenica? E poi, non posso affidare l’incarico ad altri. Mi ingannerebbe chiunque e dai gatti non andrebbe, perché bisogna volergli bene per prendersene cura.
Alla fine sono qui. I mici mi guardano con gli occhi dolci e furbetti. Essi sono un mix di tenerezza, fragilità e noncuranza. Giocano a rincorrersi, creano la gioia in una stanza, in un salotto, perlopiù da soli o con me quando passo da loro per dargli da mangiare. E’ un microcosmo, il nocciolo duro e precario che si ripete giorno per giorno. Sì, sono qui con i due gatti matti, perché gliel’ho promesso. E’ il mio branco. Mi sento risucchiata, non posso e non voglio muovermi, né correre a prendermi i miei milioni vinti. Mi sento protetta dalla loro impassibilità, il rumore che fa una vincita del genere non mi spaventa. Gli sguardi di invidia, la gente che si avvicinerà con belle maniere soltanto perché vorrà qualcosa e l’euforia che avrò nel prefigurarmi spese impossibili, il confronto tra tutto questo e gli occhi che ho di fronte mi mette un’enorme tristezza. Essere straricchi e non poter prendere i propri soldi, assurdo, ma qualcosa me lo impedisce. Va be’, domani andrò a prenderli, oppure dopodomani, forse. Adesso non voglio pensarci. Adesso voglio guardare questi occhi in cui perdermi. Due specchi, un luogo misterioso, diverso del tutto dalla realtà ispessita in cui nuoto o più spesso annaspo, dove ci sono troppe immagini che significano, definiscono, spiegano. Fuori tutto è conosciuto, tutto ha un nome, ce lo deve avere, ma non significa sempre quello che indica. Questi occhi, invece, sono un autentico mistero e mi portano altrove, nel microcosmo. Lo raggiungerò quando ne avrò voglia con la fantasia, l’anima di tante storielle come questa. La fantasia, sì. Mi piace sognare.
L’annuncio dovrebbe dire così. Se abiterò altrove, mi porterò dietro questo ritaglio di sole riflesso sul muro. E’ un ricordo di giorni, diventati mesi e poi anni, che torna in primavera come la vita viva. Il sole splende sull’angolo della cucina e promette. Lui promette gioie future, nell’attesa ti fa felice. Sicuro di sé, come io non sono, riporta alla mente le giornate di mare, il pareo scanzonato, la radio e la musica nelle piazze. Ritornano i pomeriggi lunghissimi di gente fuori dai bar a mangiare il gelato. C’è tempo e l’urgenza di fare tante cose, come se ci fosse un incantesimo per cui, d’un tratto, la favola dovesse scomparire. Che tenerezza, però. Gioventù si direbbe e si cerca di dire qualcosa che è difficile spiegare, quando provi a capirla è già passata. Con l’animo rischiarato dalla speranza inaspettata, oggi volgi lo sguardo lontano da dov’era. Ora e per poco tempo ancora, splende un reticolo di coincidenze: segni da decifrare con la mente aperta, come chi guarda forma e colore di un fiore e vede, finalmente, un ordine segreto. Per chi cerca conferme alle parole dei dotti basterebbe guardare quel ritaglio di luce sul muro. Cos’è che gli ha infiammato l’anima? Cosa li ha resi arditi? Com’è immaginare un grande amore? E’ questo che fa brillare la nostra vita come una fiammata. Ma questo cosa? Il manifestarsi della bellezza in un pomeriggio qualsiasi? La restituzione di ricordi felici? Incorpori la vita tutta insieme e poi scoppi, perchè è troppa. In ogni caso, bisogna farci qualcosa con questo ritaglio di luce, eco lontana del clamore, radiazione cosmica di fondo, memoria scritta nel corpo della fiammata iniziale, forza creatrice dell’esplosione primordiale. Bisogna farci qualcosa.
Il signor Cirinnà è un gran bel pezzo di asteroide e vanta un albero genealogico di tutto rispetto. Si dice che il bisnonno, diversi anni fa, tuffandosi come un pazzo sul nostro gradevole pianeta, che allora non era tanto gradevole, abbia addirittura causato l’estinzione di grossi e cattivissimi animali. Si dice anche che, da quel tempo e proprio a causa della scomparsa degli animaloni, siano apparsi altri animali, molto più piccoli, ma non meno aggressivi. Nello spazio stellare infinito il discorso su qualcuno che causa qualcosa e che questo qualcosa possa danneggiare quel qualcuno è stato da sempre fonte di perplessità e non s’è mai ben approfondito il nocciolo della questione. Il padre del signor Cirinnà detto ‘o scarmjato (‘lo scarmigliato’ tradotto in dialetto dall’asteroidese) seguì le orme degli antenati circa 3 secoli fa. A questa impresa se ne aggiunsero delle altre, compiute dai numerosissimi zii e zie: una nel XIX secolo e altre portate a termine dai più giovani nel XX secolo. Di recente i fratelli di Cirinnà hanno imitato le gesta dei loro predecessori, ma, siccome erano in vacanza, hanno pensato solo a divertirsi, andando a casaccio nell’universo. Cioè, tutto va a casaccio lì, così credevano i giovani e inesperti asteroidi, non sapendo nulla dell’influenza di altri pianeti sulle loro vicende che ritenevano strettamente personali.
Mentre il signor Cirinnà viaggia a 250.000km/h non pensa ai palazzi, alle case con i mobili, ai cassetti e agli armadi pieni di vestiti, non pensa alle carte conservate nei ripiani e che fatica spolverarle: ricevute, mail, bollette pagate, comunicazioni varie conservate perché non si sa mai possono servire. Il signor Cirinnà tanto meno pensa ai pomeriggi all’apparenza mesti e anonimi, che però ti ricordi a distanza di anni. Forse perché l’animo tuo, esplorando gli abissi dell’essere, ha toccato una conchiglia, un lontano ricordo, qualcosa di vivo e vivente ancora laggiù, nel profondo. Il signor Cirinnà non pensa ai progetti degli abitanti della terra, ai piatti messi a scolare, alle portaerei, agli ospedali, alla muraglia cinese né alla basilica di San Pietro. L’asteroide non considera che molti quaggiù non considerano l’alternarsi del giorno e della notte, presi come sono dal loro daffare. Tutta roba di poco conto o addirittura niente per lui. No, non ci pensa. La superficialità non è un difetto e non lo si può biasimare per questo. Piuttosto, in un angolo della sua mente conserva le fattezze della madre, assai scontenta quel mattino della sua partenza. D’altronde lui è un asteroide e fa il suo mestiere. L’ha voluto l’orbita, così le ha detto en passant.
Tutto sommato l’ansia della signora Budassi, la madre, non è fuori luogo. Infatti, per sentito dire pare che gi abitanti della Terra da tempo stiano escogitando un sistema di difesa nel caso si presenti un attacco da parte di un asteroide. Attacco e difesa sono parole senza senso per i corpi celesti. Si tratta ancora di quel misunderstendig iniziale e cioè del qualcosa che danneggia qualcuno. La signora Budassi ha un presentimento nefasto e non si sbaglia. I terrestri, informati dell’arrivo del signor Cirinnà, hanno già puntato una bomba nella sua direzione atta a farlo a pezzi. Ma che cosa disdicevole! L’esplosione dell’asteroide desta sconcerto tra gli astanti. In particolare Marte, cui sono piovuti addosso pezzi di meteorite, non è riuscito a nascondere una punta di fastidio. Da poco spolverato dal vento stellare si sentiva lindo come un bambino. Ora, dopo la deflagrazione, è di nuovo inzaccherato.
La notizia ha fatto il giro delle galassie arrivando agli angoli dell’universo. Chi indice un flashmob per recuperare i pezzi del signor Cirinnà, iniziativa foraggiata soprattutto dai più giovani. Chi punta il dito contro la Terra, chi evita l’argomento, poiché, a detta dei più anziani, già s’era verificato un fatto simile. Insomma nell’universo c’è da sempre un gran vociare, utile ad accorciare le immense distanze e a fare memoria. Ma stavolta l’argomento è diverso. Solitamente i discorsi sono del tipo “hai saputo della supernova esplosa?”, “ma guarda che tempo che fa”, “questi venti cosmici carichi di radiazioni non ti fanno dormire”. Anche i buchi neri, normalmente assai reticenti, scalpitano muovendo il codino. La popolazione dello spazio senza fine è in agitazione. Qui le cose accadono e basta. Nessuno s’è posto la questione del qualcosa che fa del male a qualcuno o almeno non in questi termini. Per questo il signor Cirinnà non pensava alle case piene di cose dentro. Anche i vecchissimi affermano che nell’universo non s’è mai ingaggiato un dibattito con la dovuta precisione e serietà sul fatto. Dal big bang in poi le masse gassose, poi pianeti, le stelle, gli asteroidi, i buchi neri hanno chiacchierato di tutto tra loro. Soltanto la Terra, con il suo bel faccino blu, non ha mai partecipato. S’è sempre sentita speciale, dicono alcuni. Pensano di essere soli e sono tutti impauriti, sfottono gli altri.
Fluvià, cometa antenata del signor Cirinnà, viene dal lontano futuro ed è splendente stanotte. Solca i cieli della terra come un sorriso, una pacca sulla spalla per non farci sentire spersi. Così come quando le cose accadono e basta, senza rancore.
‘L’allégorie de la simulation’, L Lippi (Firenze 1606-1664) da Wikipedia
Ciabattare fa tendenza nei corridoi degli uffici, s’accompagna alla camminata rapida tipica dei nativi. Quest’ultimi, tesi come manici di scopa, tengono la testa leggermente piegata da una parte, come se gli impegni gravosi che sono obbligati ad assolvere pesassero solo da quella. Le donne sembrano ancelle, tanta è la leggiadria nel portamento. Gli uomini assomigliano a domestici in livrea, dall’andatura cadenzata e dimessa, come da contratto. Si tratta di gente eletta, che vive di luce riflessa, insignita di onori che noi mortali neanche immaginiamo. Quando veniamo a contatto con le alte sfere della vita che si svolge nella sconfinate lande della burocrazia abbiamo un po’ di soggezione, un sentimento misto all’ammirazione, per il loro fare etereo da una parte e fantozziano dall’altra. Forse, al varco li aspetta una pianta di ficus benjamin, solenne come un portiere silenzioso e onnisciente. Per la precisione gli uomini non ciabattano, essi procedono alzando e abbassando la testa ritmicamente, spesso sono assorti in pensieri di massima importanza: cosa gioco al picchetto, stasera che fanno in tv, Claudio c’ha dato buca al calcetto. Le tribù che popolano i locali pubblici e privati dell’efficienza moderna pare vivano in un altro mondo, per questo burocratonia è la terra dell’eden, dove tutto diventa facile. Gli abitanti danno consigli, col sorriso sulle labbra. Si tratta di soluzioni a problemi che abbiamo solo noi forestieri e che, sia per il livello di conoscenza sia per l’empatia degli autoctoni, sono del tutto assurde e irrealizzabili. Ma a loro poco importa, ciò che conta è solo l’enorme mole di lavoro da smaltire, che eseguono con calma filosofica e un po’ canzonatoria. Puoi soffermarti a lungo in queste zone dell’essere e del non essere, in cui la fatidica domanda risuona da lontano. Dipende tutto da quanto tempo ti fanno attendere. Più sosti nella terra promessa tanto più ti fai un’idea sul niente che gliene importa del resto del mondo.
Gli abiti delle signore denotano un certo gusto: ciondoli e charms ravvivano l’ambiente e suggeriscono che loro sono glamour, spensierate, allegre come gli accessori di cui si ornano. Inoltre, tentano di proporsi come ideale assoluto di una qualsiasi, che esce da casa spettinata, in abbigliamento modalità arlecchino, cioè con colori accostati a caso. Queste donne possono entrare struccate e uscire dal bagno dell’ufficio con un look perfetto. Ciò accade per pura magia. Mentre si sosta in anticamere viene da pensare alla loro esistenza. Sicuramente hanno la colf. Nel giorno della domestica l’abitazione è una piazza d’armi, ma tanto pulisce lei. Gli uomini vantano macchine nuove, sport costosi che praticano per i figli, così dicono. L’abbronzatura d’estate è un must per tutti, uomini e donne, che si alzano dalla sedia dell’ufficio e interpretano il ruolo di gente in vacanza nei luoghi di vacanza. Naturalmente, le stanze sono tappezzate di disegnini di bambini dolcissimi. Frasi e aforismi sulla vita, sull’amore capeggiano qua e là, poiché, dietro la facciata da impiegati, batte un cuore che pulsa sangue e saggezza. Quando passano nei corridoi, c’è quasi sempre una persona che parla e gli altri che ascoltano, deve essere il capo branco con il branco. Se si muovono a due a due, si salutano cordialmente. Il più debole lo riconosci, è quello preso di mira da tutti, se lo smangiucchiano piano piano o lo divorano in un boccone come fossero t-rex. Se una risposta non soddisfa l’utente, è l’utente il problema, oppure ha sbagliato qualcun altro. Nel caso risolvano il problema, devi stare al gioco e glorificare l’addetto/a, politicamente corretto parlando. In questi luoghi non c’è realmente un capo o un padrone, che poi la figura del capo è un po’ da cafoni e non sia mai. No, qui ci sono tanti feudi, dove i feudatari, i vassalli, i valvassori, i valvassini e i servi della gleba condividono alcuni privilegi in proporzione all’importanza del ruolo. Soprattutto la deresponsabilizzazione nei confronti dell’operato è qualcosa da imparare subito, anche perché i problemi degli altri sono degli altri.
Nelle tribù in considerazione o si è smart o non si è niente, s’intende. Le donne hanno dita delicate, con cui si sistemano i capelli dietro le orecchie. E’ tutto un profluvio di gentilezze ostentate anche nel tocco sugli schermi degli smartphone, su ci poggiano dita gentili e però unghiate. Vezzi che evocano dialoghi fatti di immagini e messaggi insulsi. Un miscuglio di chiacchiericcio, frasi ad effetto e raffinatezza debordante rappresentano pezzi pregiatissimi nella vita di società. Gli uomini praticano anche loro, sfoggiando una manualità eccezionale. Talvolta si battono il petto, alzando in due una stampante da tavolo. Di delicatezza formale si tratta, non sostanziale. La differenza è difficile da dire, te ne devi accorgere. E’ un po’ come quando vorresti graffiare l’altro con una frase sgradevole, invece svicoli alla tentazione malsana e parli di banalità. Questa è la delicatezza sostanziale, almeno per me, che faccio fatica col politicamente corretto. Ma a burocratonia tutto è esteriorità, velocità di un click, ciò che conta è il racconto della realtà proposta da qualcun altro non la realtà vissuta e raccontata da ciascuno. Perciò, conta la forma. E’ importante saper eseguire gli ordini, le parole svuotate di senso, meglio se sempre le stesse. Così come conta essere pettinati, essere allineati, non fermarsi mai a riflettere. E’ di moda dire male del sistema e, allo stesso tempo, campare con il sistema, per fare bella figura, mostrando lucidità e ponderazione di giudizio.
A burocratonia nulla di tutto ciò risulta stridente, ipocrita, illogico o contraddittorio. Semplicemente è nell’ordine delle cose, poiché c’è un ordine non sovvertibile. Invece, la vita fuori di lì è perlopiù affidata al caso, cui noi forestieri cerchiamo faticosamente di dare un senso.
Le signore ingioiellate, ben truccate e ben vestite, raccontano a tutti di cucine sopraffine. In casa sfacchinano come matte, ma quando escono sembrano Grace Kelly. Te le immagini a mani unte, sudate, in tuta e grembiule impataccato, a spadellare per gratificare il palato dei cari. Come per magia, si trasformano in principesse. S’aggirano tra di noi, parlando con i conoscenti delle loro fatiche culinarie, senza lasciar trapelare lo sforzo. In quei momenti m’appaiono simili a ballerine sulle punte. Sono perfette quando escono, tanto è vero che non pare vera la loro versione casalinga. Dal fruttivendolo se ne vanno verso casa, con enormi buste di verdura, indossano completi di lino e collane appariscenti, rossetto, smalto e tutto. A volte, caricano un’enorme spesa in macchina, con il solo aiuto del commesso del negozio, lasciandoti ancor di più a bocca aperta a causa dell’impiego della tecnica che loro sanno condurre, il che le fa moderne e forti due volte. Cosa indosseranno quando laveranno le verdure e quando le cucineranno? Saranno le stesse, oppure si impadronirà di loro lo spirito di un donnone di altri tempi? E’ questa la loro essenza e quella che portano in giro solo una maschera? E’ possibile che abbiano consultato gli esperti della vita altrui, coloro che sanno come dovresti vivere la tua, cosa dovresti fare e non fare. Questa fortuna di regola andrebbe anche apprezzata, cioè la fortuna di conoscere gente dalla genialità indiscussa. ‘Dovresti essere un po’più così e un po’ meno cosà…’, è il monito. Teste scrollate in atteggiamento di diniego. Che pazienza, sembra dicano. Che infinita bontà devono aver avuto quegli individui speciali, per metà uomini e per l’altra metà divini, a tenermi in vita lo stesso.
E’ meglio mostrarsi d’acciaio ed evitare accuratamente fastidiose intromissioni. Così devono aver pensato le signore principesse fuori casa e cenerentole dentro e, negandosi l’aiuto che avrebbero desiderato, non hanno pagato il pesante dazio. Non hanno dovuto abdicare a favore del soccorritore, perché, in fondo, una donna non è mai veramente padrona della propria vita. Se una donna forte chiede aiuto una volta, significa che non sa fare niente. Se una donna non è forte, è normale, dunque, va aiutata volentieri. Con tutta tranquillità uno direbbe che i cari di queste amazzoni della spesa potrebbero accontentarsi di uno yogurt a cena o di un panino, per vivere tutti felici e contenti. Ma le cose non vanno così nella vita vera, dove esistono più personaggi in tinta con l’azzurro che nelle fiabe. Principi e principesse, fate turchine e cavalieri fanno cose grandiose, degne del plauso dei mortali. Non metto in dubbio che ci siano persone del tutto inadeguate a seguire le orme dei grandi e a compiere gesta memorabili. Se trovassi per caso un mantello azzurro, me lo metterei su e poi si vedrà. Certamente è innegabile, una volta indossato l’abito fatato, la persona risplende di luce propria e compie azioni eccezionali, che vengono valutate diversamente in base a chi le compie. Se sei donna il fatto di occuparsi della famiglia è qualcosa che ti fa entrare nell’empireo delle grandi e se fosse quotata in borsa diventerebbe l’occupazione principale degli uomini. Invece, lavorare duramente rientra nella ruotine. E’ un eroismo invisibile, come ce ne sono molti. Se a ciò aggiungi il fatto che sei disposta a metterti in macchina col sol leone per macinare un centinaio di chilometri ed arrivare ad innaffiare le piante dell’orto, poi la mattina non hai voglia di temperare le matite del trucco, la mostra dei muscoli non è nient’altro che una gaffe. Ciò ha l’effetto di una forte stonatura e addio empireo delle grandi. Sei solo una persona normale che fa una cosa da dio e un’altra mossa da inerzia. E’ così, ma per fortuna siamo born to be alive. Io ho un mantello usato, credo sia appartenuto a mia nonna, la quale aveva ben chiaro ciò che fanno gli uomini e ciò che fanno le donne, ma spaccava la legna che sembrava wonder woman. L’autodeterminazione femminile deve essere inversamente proporzionale agli etti di unghie finte che si mettono, mia nonna la praticava senza saperlo.
Le cose che succedono nelle favole, quando accadono nella realtà, sono tutte un po’ sbilenche. In sogno mi è apparso un principe da cui mi facevo prendere in braccio. Si vedeva chiaramente che il suo status principesco era frutto di improvvisazione e, constatato l’affanno che il portami a zonzo gli causava, gli ho chiesto di farmi scendere. Magari ci fosse sempre qualcuno che t’ama senza pensarci, così come gli viene, che non ti promette d’esser il migliore, di fare cose eccezionali. ‘Fiore rosso, petali a cuore, brilla il colore e l’amore. E’ giallo e arancio, fiore che brilla sulla vita e sul pianto’, è la filastrocca infantile che cantava un matto per strada.
Ma cos’è la felicità? Assenza di dolore, vivere nella natura, apprezzare il canto degli uccellini? Oppure la felicità è stare distesi al sole circondati da caimani e non accorgersene? La felicità è qualcuno che ti vuole bene, fare gruppo, avere soldi, realizzare i propri sogni, fare un figlio, correre con un cane, guardare un gatto negli occhi, rinunciare alla felicità d’ordinanza ed esserlo lo stesso? Potremmo percorrere il tragitto da cenerentola a principessa e ritorno convinte di vivere in una favola. C’è chi si trova bene nel territorio di mezzo tra finzione e realtà, chi viaggia gratis e senza sforzo leggendo un romanzo ambientato nelle Ande.
La vita non è un romanzo, dicono. E’ vero. Nei romanzi esiste una vasta gamma di personaggi con difetti: un’umanità di tutto rispetto, imperfetta e affascinante, come gli alberi nodosi, piegati dal vento. Gente mai esistita che dice di essere triste, stanca, di avere paura. Gente che ha voglia di scappare, cui manca qualcuno che la proteggeva in tenera età. Nei romanzi ci trovi gli imbroglioni, i criminali, i poveri diavoli. Ma ci sono anche personaggi di grande statura morale. E poi i gelosi, gli avidi, i lussuriosi e i traditori. Anime belle e brutte. Sulla carta esistono tante umanità, tutte valide. Nella vita non c’è pietà per tutte, ma estremo riguardo solo per alcune. E poi nei romanzi si parla di felicità. Nella vita no, la si esige senza nominarla.
Il catalogo degli stili di vita da acquistare comodamente da casa è pieno di modelli di donna e di giovinezza prêt à porter. Basta scegliere. Nella vita reale metti e togli maschere tutto il giorno. Una la togli rientrando in casa, un’altra la metti. Fare buon viso a cattivo gioco è da sottomessi, inoltre dai e dai non sai più quale sia la tua di faccia. La finzione delle favole non ha nulla a che vedere con quella della realtà. Infatti, principesse si nasce, ma nelle fiabe lo si può diventare. il bacio del principe è il colpo di scena, previsto alla fine, in cui capiamo tutto, ma in quel momento lo svelamento chiude il sipario e lo dimentichiamo. Quando la morte appare in ciò che comunemente definiamo realtà, l’amore s’addensa tutto insieme, in una stanza d’ospedale, in casa, per strada. Siamo migliori di come siamo mai stati e di come saremo. Accettiamo tutto dalla vita, anche il minimo sindacale di felicità. E’ come d’estate o a vent’anni, nel picco più alto del nostro vivere. Dopo, in autunno o d’inverno, durante i giorni qualsiasi, torniamo ad essere quelli di sempre. L’addensamento d’amore si disperde in atomi. Grumi d’energia fluttuano nell’aria, corrono come stormi di rondini per assieparsi ancora dove la bontà di un’azione è così lucente da dileguare le ambiguità fisiologiche della vita di tutti i giorni. Campi magnetici si formano laddove c’è uno contento di farti ridere, oppure nella strada vicino casa, ad ascoltare il vento con il quattrozampe tutto cuore. Anche questa è una favola e s’avvera a suo piacimento. Non è il mondo rutilante di paillettes, pieno di notizie tossiche, prodi cavalieri da due soldi e regine che tirano fuori la corona dal cassetto per farsi un selfie.
Su un muro campeggia questa scritta: ‘Chi ci salverà dai brutti pensieri, dai sentimenti neri? Un principe sul cavallo bianco o uno cui domandi: ‘Balliamo?’, e lui ti risponde: ‘Amo’ so’ stanco’. Nella realtà i brutti pensieri se li porta via il vento, che s’impenna e ridiscende in strade invisibili. Nella realtà c’è chi partecipa, non vince e s’inventa valide alternative.
In un film il protagonista cede titoli nobiliari in cambio di denaro. Ovviamente, si tratta di una truffa, viene denunciato e addirittura arrestato. Dalla finestra del carcere grida: ‘Ciao, principessa’, alla donna che ha ingannato come gli altri, ma di cui s’è innamorato. Il film è: ‘Durante l’estate’, di E. Olmi. Le vere favole sono così: ti illudono in modo furfantesco, ma, a volte, cadono nel loro stesso tranello. Ci sono favole e favole, il bello è poter credere, giocando, a quelle che la sparano grossa.
Sarà che oggi le parole e le cose non corrispondono più tanto bene. Era bello quando le immagini prendevano vita, volavano nell’aria, si fermavano come farfalle sui fiori. Donavano un senso alle cose del mondo, a quelle che meritavano attenzione e che ora sembrano svanite.
L’adolescenza è acqua ruvida: è fresca, spumeggiante e ferisce. Ha tanti colori, come la verità e ha tante forme, in un momento esplode di gioia di vivere, in un altro affiora un pensiero che incupisce e stride. Maria, l’adolescente, ritorna a casa da scuola. E’ un fatto che succede tutti i giorni, sempre lo stesso percorso. La cittadina è piccola, perciò, conosce tutti e tutti la conoscono. In ogni sentiero, anche in quelli che percorriamo quotidianamente, c’è sempre qualcuno che non conosciamo. Una persona, un luogo, un accidente che si presenta, a volte, solo per il gusto di turbare quell’incedere da sonnambuli, un po’ saccenti ed esperti della nostra vita. ‘Ehi, bambina, potresti aiutarmi?’, grida una signora dal balcone. ‘Certo’, risponde Maria, ‘cosa posso fare per lei?’. ‘Mi sono cadute le mollette, saresti così gentile da raccoglierle e portarmele?’. Maria esaudisce la richiesta della vecchietta che si chiama Ersilia. La signora è piemontese di origine, tratta male tutti, poiché il suo orgoglio sabaudo la fa sentire superiore agli altri concittadini. Però, con Maria è gentile. Siccome la faccenda delle mollette succede spesso, Ersilia prepara delle pagnottelle dolci da regalare alla ragazzina. A volte, Maria le mangia durante il tragitto, quelle che avanzano le porta a casa.
Non diciamo che la famiglia sia povera, ma neanche che se la passa bene. Quel pane insospettisce la madre. Più che un sospetto è un rigurgito di dignità, cosa che ormai, cioè da quando le condizioni economiche sono peggiorate, mette ovunque, anche quando non ce n’è bisogno. Sono tanti i modi che la gente usa per farti sentire una pezzente, rimugina tra sé. Dovrà mandarla all’inferno, prima o poi, perché con il pane non si compra nessuno, demonio di vecchia. Conclude così la ruminazione solitaria.
Dopo aver perso il lavoro da insegnante di danza, Marta s’è messa a cercare i famosi lavoretti. Passati i 50 ha perso lo smalto, come il piatto della doccia, su cui si sono formate tante piccole rughe. Nel suo viso spiccano gli occhi. Essi soli resistono al trascorrere del tempo, come se tutto il resto invecchiasse e gli occhi no. L’ultimo ricordo del suo mestiere è lo spettacolo ispirato a Pina Bausch: Kontakthof, per gli over-65. Il marito, scenografo, ne era entusiasta. Aveva pensato di organizzare una serata gratuita, mettendo all’entrata un bel cartello: ‘Non meravigliatevi che il percorso sia accidentato, non avete pagato il biglietto’. ‘E’ una metafora della vita’, disse.
La Pasqua è attesa, come sempre. Ogni festa ha i suoi preparativi, a Natale si pensa agli addobbi, a Pasqua, invece, prevalgono incarichi da fine letargo come pulire la casa, il terrazzo o il giardino. In ogni caso i dolci si comprano, come a Natale. I palazzi alti della grande città sono pieni di cose: raccolte differenziate, vestiti, cambi di stagione, piumoni da portare in lavanderia, bollette, ricevute da conservare. Dentro i palazzi le persone, tantissime storie che hanno almeno un capitolo identico. E poi ci sono i pensieri di ciascuno. Questi pensieri non contano, visti così, chiusi in enormi edifici, incastonati in alveari di balconi, fiori e panni stesi.
Dato che uno attende, qualcosa di insolito s’avvera, magari stando in piedi, un po’ sbigottiti a rimirare il volo lunare delle ali dei gabbiani all’alba. L’arrivo della primavera anticipa il giorno e il chiarore che esso porta con sé, imitando il lenzuolo di un assonnato. Con il giorno e il chiarore affiorano dalla notte, con notevole anticipo rispetto all’inverno, le impressioni che la natura ancora ci regala. Così, dopo aver pulito casa, Marta si guarda intorno, controlla che tutte le cose siano a posto, che tutto sia pulito, affinché il mondo non vada fuori asse. Squilla il telefono. E’ la cognata che li invita al pranzo di Pasqua, ‘come sempre’, ci tiene a precisare. Cioè, visto che casa vostra è un buco, sono costretta a invitarvi nella mia. Questo è il retropensiero. Irene, la cognata di Marta, ha due bambini. Va bene, l’invito. Ma non è questo l’evento atteso e neanche il fatto di aver pulito a fondo la casa.
Di solito chi regala l’uovo esclama: ‘Che stupidaggine ci sarà dentro?’, questo sia prima che durante lo scarto. Una volta aperto e vista la sorpresa, si può affermare che sì, è proprio una stupidaggine. Oggi come oggi tutto ciò si perde, un po’ a malincuore perché i convenevoli, tollerati dal giudice più spietato delle ipocrisie, danno sapore alle feste. Oggi, per l’appunto, il teatrino dei semplici ha lasciato il posto a certezze che non permettono a nessuno di avere dubbi durante lo scarto dell’uovo. Siccome costano parecchio, la sorpresa non può e non deve essere una stupidaggine, perciò viene meno la commedia. Quanto detto è confermato dalla reazione della bambina, la quale, giunto finalmente il giorno di Pasqua, al suono del campanello, è corsa alla porta per accogliere gli zii e la cuginona. Ha agguantato l’uovo dalla busta, non si è limitata a scartarlo, bensì l’ha disintegrato per prendere la sorpresa. Una volta stretta nelle mani e rigirata a 360gradi, ha definitivamente gridato: ‘Che schifo!’.
La povertà è quella condizione che gli altri ti fanno capire quando, per esempio, c’è una borsa nelle vicinanze e loro corrono ad assicurarla. La povertà è una condizione degli altri, dunque, ma riguarda te. Così riflette Marta a seguito della consueta esplorazione sbrigativa e obbligatoria della stanza da letto del fratello. ‘Lasciate pure i giacconi sul letto’, strilla la cognata dalla cucina, durante le visite dei parenti. Così succede anche oggi. Sennonché, nel momento in cui vede Marta passare accanto alla sua borsa aperta con 50 euro in bella vista, lei si fionda per controllarla. Tristissima Marta impreca dentro e neanche può dirlo al fratello.
Maria fa piroette a rotta di collo, così che i piccoli se la ridono di gusto. La gioventù è tutta fuori, è un andare incontro alla vita urlando di felicità, come quando si sta sulle giostre con i seggiolini detti anche calcinculo, forse un presentimento di ciò che avverrà. Invece l’età adulta è fatta di cretinate, scaramucce da poco. Maria si sussurra dentro la speranza di non diventare come loro. Il presente travolge ogni cosa, noi compresi. Marta guarda la figlia, indovinando i suoi pensieri. Stavolta li lascia stare, rispetta il sacrosanto diritto di sentirsi eterni. L’attimo vissuto trasforma anche la nostalgia della gioventù. S’accorge, infatti, che i suoi ricordi, come se fossero caduti per disattenzione nella betoniera, vengono amalgamati dal tempo che passa e tradotti nell’attualità scialba, fatta di piccole certezze. Insomma, diventano cose cui ripensare con ponderazione e saggezza. Una condizione decisamente dura da accettare.
‘Lega la piante dei piselli’ ha tuonato tuo padre giorni fa, racconta Ilde, la madre di Marta, al fratello sul balcone. E’ andata così: stavano nell’orto moglie e marito, a zappare. I piselli erano cresciuti, qualcuno s’era piegato e il bastoncino che lo teneva pure. ‘Sbrigati’, gridava Aldo come un matto. ‘Io mi agitavo, perché avevo i guanti e non riuscivo ad seguire le indicazioni, il filo mi sfuggiva dalle mani. Più gridava, più mi agitavo. Alla fine mi lancia il sacco degli attrezzi sul petto e se ne va’, Ilde s’aggiusta la camicia e sospira, come per rassettarsi l’anima. ‘Qualche giorno dopo tuo padre mi ha chiesto scusa’, conclude la donna con un sorriso di cortesia. La sera, davanti allo specchio del bagno, mentre lavava i denti, episodi di vita degli ultimi decenni hanno iniziato a scorrerle nella testa come treni veloci. Uscita dalla stanza s’è scrollata come i cani, per cominciare una nuova epoca. Questo, però, ai figli non lo dice.
Il pranzo di Pasqua è fatto di cose buone che tutti mangiano, mandando giù risentimenti, ricordi tristi e qualche attimo di gioia familiare. Per potersi accontentare nella vita basterebbe il pane che nutre, non uno qualsiasi. Dalla tv accesa risuona Titine. Maria avanza roteando il bacino: l’andatura tipica dello spettacolo in cui la gente scherza, si abbraccia, corre, ride, si fa i dispetti. Insomma, recita se stessa. I bambini litigano animatamente con lo zio per la cioccolata dell’uovo, poi corrono a imitarla. L’evento inatteso ha messo a posto le cose. Sembra il gesto compiuto a fine giornata da un giardiniere stanco, cui manca solo spostare un tantino l’asse del mondo, riporre gli attrezzi e tornare a casa. Un gesto semplice che ha riportato la serenità sul viso di Marta. I gesti infantili, i tic, le smorfie e i bisticci accontentano quella voglia di non dover dare giustificazioni, nè spiegazioni. E’ il non detto del quotidiano che emerge e che dice: ‘Non parlate di me. Non parlate di me se non capite, voglio restare un enigma’. Quello che non c’è bisogno dire, come se ci fosse un patto stabilito in un tempo lontanissimo, è che, davanti allo specchio al mattino, nessuno è obbligato definirsi, al fine di passare in rassegna, giorno dopo giorno, i punti di forza e di debolezza. Se ci sono tutti o se qualcuno s’è perduto e ha lasciato il posto ad altro. Nei colloqui di lavoro sei brava se ti definisci in poco tempo con 10 aggettivi, ma nella vita è inutile. Ci vuole altro per dirti chi sono: uno spettacolo, una musica, la pagina di un libro, una foto e anche così non è tutto quello che sono. Non posso sapere ogni cosa, a volte, improvviso, bisognerebbe rispondere così al colloquio. Di fatti, che ne so se desidero un contatto umano in mezzo a tanti impegni che la vita mi pone di fronte? Non lo so, finchè non provi ad abbracciarmi. Allora, mi sento come quando penso di avere fame, poi bevo e scopro che avevo sete. Ma, se ti avvicini troppo e in malo modo, tiro calci. Ecco tutto. Ma vaglielo a dire.
La famiglia ha un trucco. Veramente, ce ne ha tanti. Uno di questi consiste nel fatto di saper sciogliere i nodi e la complessità dei rapporti, agevolandosi dei ruoli di fratello, sorella, coniuge, padre o madre, figlia, cognata e su ciò stabilisce quando corre l’obbligo di volersi bene, quando è opportuno detestarsi. In questo conglomerato di persone, messe insieme dal destino, c’è sempre un anello debole, che incarna i pensieri degli altri su di sé e non esce facilmente da questo groviglio. Questo è un altro trucco. Il vantaggio di farne parte consiste nel sapere di avere un posto e che il tuo è quello dove ti trovi, cioè sai di non occupare il mondo abusivamente. Un’altra trovata è questa: fornirti di una barriera lì dove sei. Una specie di bolla di vetro da azionare, capace di ricacciare un fatto brutto. I luoghi di contatto sono come i misteri del cosmo, invece. Marta e Maria ne sono attratte, senza esitazione portano a termine il compito improrogabile di andarseli a cercare. Vanno di qua, vanno di là, un giorno li trovano. Dell’esperienza di libertà che fanno? Marta non può che metterla nella bolla protettiva. Così l’equipaggio è al completo, può partire lontano dai fatti brutti. La custodisce nell’animo, come un’ispirazione, restituita al mondo sotto forma di danza. Sono fatti suoi, cui partecipano gli altri, che non la riconoscono come libertà. Solo così può nascere un’altra volta, sempre sola, s’intende. Perché da grandi la maggior parte non sa che farsene della libertà. La si porta in giro, su un vassoio d’argento, presentandola come il servizio buono della nonna. Io sono Marta e sono libera, fai caso che dica. Ecco a voi la mia libertà: una moneta fuori corso, qualcosa da scambiare sottobanco, da capirsi al volo con l’altro senza tante parole. Maria rimane a giocarci, l’età glielo permette. Beata lei che non sa cosa siano i compromessi e che della vita ha una così alta opinione, pensando che qui dentro c’entri tutto ciò che desideriamo essere.