Lo strano caso dell’essere troppo e non abbastanza

Giorgio de Chirico, ‘L’ora inquietante’

‘Sei esagerata’ è stato il rimprovero più frequente, glielo diceva la madre a Giada, con noncuranza sugli effetti, ogni volta che voleva sottolineare l’espressione di un’emozione fuori controllo da parte della sua bambina. Certo, avrebbe potuto essere anche più simpatica, oltre che non esagerata. Per farle capire come la voleva, le regalò un poster con rappresentato un ragazzetto rosso di capelli, lentigginoso, dagli occhioni languidi e ruffiani. Quello era simpatia, così diceva il poster e Giada avrebbe dovuto assomigliargli. Lo guardava con rabbia, era stato messo al centro del corridoio, appeso al muro a mo’ di promemoria. Lo doveva incrociare per forza, perché nel corridoio ci si passa sempre.

In seguito Giada si stancò di persone che mentivano. L’arte di predicare bene e razzolare male non voleva impararla. In definitiva si stancò degli adulti. Forse, giurò a se stessa che non sarebbe mai diventata come loro, che non sarebbe mai cresciuta. Come adesso anche allora le liti familiari particolarmente accese destavano l’attenzione dei vicini. Erano i tempi in cui a chiedere aiuto venivi presa per matta, soprattutto se i tuoi, complici omertosi, ti indicavano come quella che si inventa i drammi. Qualcosa di simile capitò a Giada. Una sera la vicina vide la scena dall’occhiolino. Era una studentessa, di quelle ligie, che non fanno casino tutti i giorni fino alle 3 di notte. Lei rappresentava ciò che Giada desiderava per se stessa: la libertà di pensare alle sue inclinazioni, inoltre aveva una vita più facile rispetto alla sua. Per tutto il tempo che abitò lì, quando si incontravano nell’ascensore, rimasero in silenzio, per ascoltare meglio l’una il cuore dell’altra. 

Di fatti di drammi Giada iniziò a inventarsene. Disse bugie anche a se stessa su quanto fosse lei inadatta al mondo e soprattutto su quanto fosse inadatto il suo sentire il mondo e se stessa. Iniziò inconsapevolmente a mettersi sul banco degli imputati. Così passava scrupolosamente al vaglio i fatti: era vero quello che sentiva lei o la realtà stava da un’altra parte? In questa confusione si perdeva. Avrebbe fatto bene a prendere per buona la visione del mondo materna e, una volta accettata interamente, non se ne sarebbe parlato più. Avrebbe abdicato a se stessa per scongiurare il rischio di sentirsi, allora tutti l’avrebbero approvata. Ma non ci riuscì.

L’informe esuberanza di vita dell’adolescenza andava a braccetto con il troppo sentire, soffrire, amare. Strizzava l’occhio al poco che temeva di essere: poco intelligente, brava, bella, capace. Giada rappresentava il dramma del doppio con abbuffate, seguite da estenuanti lezioni di ginnastica. Controllava il suo peso così come controllava i doppi eccessivi che aveva in sé, affinché rimanessero ciascuno per conto suo e l’uno contro l’altro, separati, divisi. Giada faceva attenzione ad evitare anche il minimo approccio di avvicinamento, il quale, se fosse avvenuto, sarebbe stato il preludio del difficile rapporto con se stessi che prevede accettazione, amore e arresa. Non aveva mai sperimentato la costruzione di una relazione, non aveva mai suscitato vero interesse nell’altro, cioè nei suoi genitori. Lei era al centro del mondo solo in quanto figlia della madre, la quale, nei lunghi anni di pantomima dell’amore materno riuscì a frenare l’impulso sincero, tranne le volte in cui Giada ebbe bisogno di lei e le disse di no. L’amore materno era sbandierato ai quattro venti, assieme alla presunta cattiveria della figlia quando le rispondeva a tono e lei faceva la faccia sconsolata della vittima. 

Le maschere riflettevano non solo la mancanza di amore, ma anche il germe di un odio spietato, senza cuore. Le menzogne nascondevano sentimenti spiacevoli, annidati nel nucleo familiare che dovrebbe proteggerti, dove i legami sono tesi, resi difficili dalle persone che vi partecipano o che rifiutano di partecipare. I genitori avevano una strana repulsione per quella figlia, come se li infastidisse. Agivano razionalmente, sapendo cosa convenisse loro fare, poi lo facevano. Non si preoccupavano di capirla, così come i membri della classe dominante non si curano di ascoltare le minoranze.

Giada avrebbe voluto sapere gli altri come vivevano in Nuova Zelanda, per esempio. Se c’erano gli stessi casi di ossessioni alimentari tra gli adolescenti in Nuova Zelanda, in cui i legami familiari non traboccavano di doveri da assolvere come qui. ‘Magari quelle come me sono dappertutto, siamo persone nate così’, si diceva.

Per descrivere il senso di incompletezza percepito e la smania del vuoto da riempire che ne scaturiva, Giada immaginava di avere dentro una colonna cava e lo confidò alla psicologa, cui la madre la spedì per risolvere il problema. Un Natale regalò un pigiama a quella donna che l’aveva messa al mondo. Sulla maglia era disegnata una mano con l’indice puntato verso la persona che lo indossava: “Tu sei ok”, si leggeva. Si pentì di quel gesto, l’ennesimo, con cui chiedeva indirettamente l’approvazione materna. Si pentì dei rari ‘no’ detti alla sua famiglia.

Giada era preda di raptus, come se qualcuno la controllasse da fuori e si impossessasse della sua volontà, facendole svuotare frigo e credenza. Poi, con la pancia gonfia che tirava, malediceva l’attimo fuori controllo e si dannava praticando attività fisica a rotta di collo, per smaltire tutto ciò che aveva trangugiato. Non era più se stessa in quei momenti, era preda della volontà di qualcun altro cui non poteva resistere. Quando tornava in sé, come fosse il dottor Jekyll, sapeva controllarsi, anzi si controllava parecchio. Benché, a volte, passando accanto ad una pasticceria, le bastava annusare l’odore dei dolci per sentirsi un’invasata. Aveva paura di darlo a vedere, quando mangiava insieme ad altri si sforzava di farlo lentamente affinché non trapelasse neanche lontanamente la bramosia di cibo che sentiva crescere dentro. Il desiderio smodato è giudicato sconveniente, soprattutto per una donna, essendo la bramosia di cibo indice di voluttà incontrollata e incontrollabile. Ai gruppi di autoaiuto le dicevano che la loro era una dipendenza come le altre. Chissà da quali fattori dipendono le dipendenze? Non era importante stabilirlo, l’importante era accettarle e non toccare la sostanza che ti fa scattare il raptus. Giusto, ma ti deve dire bene.  Un eroinomane è considerato feccia dalla società, un cocainomane lo stesso, se non è una star o un personaggio pubblico. I drogati sono persone deboli, non vanno compatiti, se volessero potrebbero smettere e, quando non lo fanno, è giusto che paghino le conseguenze. Il senso comune su queste faccende conta, ma chi s’abbuffa è ridicolo oltre che imperdonabile. Lo salva solo il fatto di non dover avere a che fare con la malavita né temere la polizia, tanto il cibo non è illegale. La gente che s’abbuffa ed espelle l’ingerito in tanto modi si nasconde, ha vergogna come ce l’hanno i drogati e gli alcolisti.  E’ come stare al principio e alla fine dell’esistenza contemporaneamente. E’ sicuramente troppa la vita che esplode tutta insieme al momento della nascita, formando un grumo di voglia e rabbia. Ed è non abbastanza, poiché mancano quei settanta o ottanta anni di vita procapite da vivere.

Giada vive adesso e le piace anche molto. Sente di più le stagioni che si susseguono, il tempo che passa e fa male, ma meno male che non viverlo. Negli anni ha abbassato il volume del frastuono interiore, modulando il rimbombo delle parole e dei gesti altrui, sul quale metro c’era da posizionarsi giorno per giorno per sapere l’indice di gradimento. Lei ora sa che non è facile avere qualche strato di pelle in meno.

Il fatto che ci siano soltanto 24 ore alla volta permette a tutti di ricominciare, a chi ha sempre vinto, come a chi ha sempre fallito. Per questo può svegliarsi e chiedersi come sarebbe il mondo, compresa la Nuova Zelanda, se quelle come lei tenessero per sé le qualità che hanno sempre ceduto agli altri. Anche così si cambia il mondo e si viaggia pure un bel po’.

mgs

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Quello che mi dice la testa

Ceslovas Cesnakevicius

La spesa non va scritta, va tenuta a mente come fosse un’acrobazia del pensiero, sferzante, adrenalinica e corroborante. Poi, al limite, si improvvisa. Dunque, nell’ordine: lenticchie in scatola = 0,69 centesimi, fagioli in scatola o ceci = 0,35 centesimi, bustina di parmigiano grattugiato = 0,99 centesimi, olio buono. Verificare la provenienza dell’olio, sottolineato più volte. Questa sezione si potrebbe intitolare: l’inps e l’olio. L’impiegata domanda cosa c’è nel terreno. ‘Piante di olivo’, rispondo. ‘Ah’, dice lei, si capisce dove vuole arrivare.’E che ci fai con l’olio?’, incalza l’altra.  ‘E’ per me’, spiego io con calma. ‘Tutto?’, insiste l’impiegata, sfoderando lo sguardo indagatore. ‘Tutto’, ribatto. Si sa che con l’olio buono è buono tutto. Allora, ritornando al pasto per due, più economico della soluzione minestrone pronto al costo di 2,89euro (un furto!), ‘potevi farlo tu’, dice. Una busta di minestrone pronto dal fruttivendolo egiziano costa 1,50. Però il suddetto fruttivendolo ce l’ha da ottobre, al massimo dalla fine di settembre. Ci vuole tempo per cuocerlo, eh già. Ma vedi, d’estate non è solo questione di tempo, la temperatura esterna di 35/36° scoraggia l’accensione del fornello. Perciò, la scusino lor signori se non vuole squagliarsi come una candela. Questa viene così, ci deve essere lo zampino dell’impiegata dell’inps a controllare che la gente non viva al di sopra delle proprie possibilità. Ma che ne sanno dei tour canonici nei supermercati in cerca di quella cosa che lì costa meno e di quell’altra che costa meno altrove. Il riciclo in questi casi non è un virtuosismo di cui parlare durante l’aperitivo, ma una missione. Il rivestimento interno dei pacchi di crackers possono essere riusati a mo’ di tovaglietta, da piazzare sotto la ciotola della gatta, l’acqua dei panni riutilizzata per lavare le copertine del cane. No, non è la vita in un campo rom, è casa di una donna di mezz’età. E’ casa mia.

Fuori si sente parlare dell’importanza di essere imprenditori di se stessi, di meritocrazia e di competenze. Ansia a gogò. Diventare imprenditori di se stessi è un must, ma ha dei lati positivi, come un calmante zittisce l’incessante bisogno di affermarsi, accompagnato alla frustrazione e alla paura di non farcela. E dai a sbracciarti: ’Io ci sono, io ci sono. Adesso ti dico quanto valgo’. Solo che l’imprenditore ha bisogno di un capitale da investire, anche quando si tratta della propria vita. La vita è un insieme di eventi, alcuni voluti altri capitati, dal sapore vago e dalla durata indefinita, su cui nessun imprenditore, viste le incertezze della riuscita, investirebbe tanto. Allora perché associare la statistica all’indeterminatezza che caratterizza l’esistenza? Una risposta non c’è, rimane soltanto il gioco d’azzardo. Intanto fuori spopola la propaganda sull’immigrazione. Strillano di restare umani. Comunque, nottetempo qui si spara ai cinghiali. E’ strano, questo mondo è strano. Partecipo alla manifestazione contro l’uccisione selvaggia degli animali, sento le testimonianze, soffro. Soffrire in certi momenti della vita risulta una novità, è un’opportunità data a noi stessi per dire: ‘Presente!’. Rispondiamo all’appello senza nasconderci. Ad un tratto ci si rende conto di aver usato l’obbligo di fare soldi e il bisogno indotto di dimostrare il proprio valore a mo’ di anestetici, per giunta con la prescrizione. E’ un modo per farsi di plastica, di non accorgersi di soffrire a causa dell’indifferenza di chi ti sta vicino per esempio. Lasci correre su tante cose della tua vita, perché altre hanno la priorità. Sento chiaramente l’obbligo di considerarmi una macchina per produrre e, soprattutto, consumare. Mi vengono a dire che dobbiamo restare umani, mi fanno vedere la gente a casa che fa il pane e si diverte con la famiglia. Però, c’è qualcosa che non torna riguardo al fatto che siamo un grande paese. Intanto che aspetto di realizzarmi in qualità di imprenditrice di me stessa cerco lavoro come dog sitter. Provo con una cooperativa che fornisce servizi alla persona. La stessa cooperativa cerca candidati. Alla fine del colloquio apprendo una cosa importante: per lavorare devo corrispondere una quota per coprire i costi del servizio fornitomi. Dietro la scrivania ci sono immigrate e si capisce perché, queste persone parlano la lingua giusta dei loro connazionali badanti, colf, operai. In una città come Roma, se sei in cerca di lavoro, basta prendere la metropolitana per capire la strada da percorrere. Ci sono quelli che parlando al cellulare, si esprimono con frasi del tipo: ‘Stasera ti giro la mail’ e sembrano fatti della stessa sostanza della parole dette. Essi/e (scritto politically correct) sono impiegati o liberi professionisti. Poi ci sono frotte di stranieri e straniere che puliscono le case dei primi, guardano i loro genitori, portano a spasso i loro cani. Questi gruppi di persone parlano anch’essi al cellulare, nella loro lingua. Ogni tanto fanno riferimento al loro lavoro. Ciò si intuisce perché infarciscono lo spagnolo, il rumeno, il filippino con parole italiane del tipo ‘signora’, oppure ‘signora arrivo’.

Girano troppi messaggi contrastanti e svianti, come quello che devi ascoltare il tuo corpo. Poi lo ascolti, diventi te stessa e vuoi cambiare vita, ma non è detto che gli altri ne siano contenti. E allora non dite che devo essere me stessa. Il fatto è che io voglio veramente la me che sono, gli altri vogliono che io sia quella vogliono loro. In ogni caso m’incanto dei sogni che faccio, belli davvero. Il mio inconscio è intelligente. A volte mi pare materico, tanto si fa sentire, fatto a forma di cubo sbilenco alla Picasso. Quello che mi dice la testa è la ricerca di un tondo fatto di cielo, azzurro con ali di uccelli in volo. E’ il cerchio verso cui fuggire ed è vero, più vero dei percorsi fatti dove corre l’obbligo d’amare. Nel frattempo mi nascondo. Vado alla fiera del libro, pieno di stands di case editrici, uno accanto all’altro. C’è tanta gente che sta bene. Passa, guarda, s’incuriosisce, parla. E’ colta e raffinata.  Probabilmente questi hanno tutti una bella casa, delle comodità, un buon lavoro e pochi grattacapi. Uno schermo proietta l’intervista fatta a una regista emergente. Osservo il suo viso, la faccia della gente riuscita, per cogliere quel nonsoché che la rende speciale. Sarà la piega agli angoli delle labbra, il modo di gesticolare convinto, partecipe e contenuto al tempo stesso. Deve essere lì che si nasconde la differenza.  Comunque, per questo motivo oscuro e per altri evidenti, io non sono come loro. Al ritorno a casa, infatti, mi avvilisco. La mia è piccola, fredda d’inverno e calda d’estate, si sta un po’ scomodi, ma la amo. Mi sembra di essere caduta dalle nuvole con un atterraggio di fortuna. Sono sempre più dell’idea che questa storia del grigio abbia stufato. Va bene su tutto, ma certe volte una cosa o è bianca o è nera. Dopo aver guardato per anni l’enorme cartellone pubblicitario di uomini e donne votati al successo, t’aspetti di trovare la chiave giusta che ti permetta di entrare nell’empireo delle persone speciali. Perciò, una cerca di non essere banale. Sìì speciale, ti raccomandano. Invocano la specialità che loro riescono a decifrare. Non uscire fuori dal seminato è fortemente consigliato. Ma sì, vivere è come recitare: se segui la partitura va bene. Se proprio vuoi esagerare devi premurarti di dare una forma armonica a questa esagerazione. Esagera con arte. Giusto. Ma che fatica. Mica sono Gassman.

Si avvicina un altro inverno ad asciugare panni appesi al bastone della tenda. Bisogna vedere le cose che riguardano tutti, come l’avvicendarsi delle stagioni, nella quotidianità di ciascuno. Allo stesso modo i ‘noi’ dovrebbero essere raccontati spiegando meccanismi unici dal funzionamento complesso. Per esempio, il passo indietro da fare per scongiurare una lite quando l’altro va in cerca solo di quella. La possibilità di accogliere il peggio e il meglio di noi stessi e delle persone che ci sono accanto. Del resto tutto è vanità, tutto passa e pure noi. Alla barista ci vuole che le faccia un complimento per spegnere quella smorfia offesa apparsa sul suo volto a seguito dell’exploit dell’elefantino che è in me. ‘Come sono belli i tuoi capelli e tanti’, ha detto lei. ‘Non me li pettino mai, chè sono ricci e non ho bisogno’, ho risposto, ‘se li avessi lisci sembrerebbero spettinati’. Lei li ha lisci e ci è rimasta male. Per rimediare ho aggiunto un’osservazione: i suoi stanno meglio perché sono più scuri dei miei. Lei ha detto che è vero, si sente vittoriosa e io sono contenta. Stare dietro agli spot istituzionali per contro è una gran rogna. Il posizionamento nella società dicono che sia molto importante. E giù a posizionarti. Se sei posizionato bene nessuno ti rompe le scatole (mi dici niente!). Dopo aver svolto un’accurata indagine, deduco che io non vivo nel lusso. Oddio, per me sarebbe un lusso coltivare la terra e vivere di quello (vedi diatriba me/inps a mo’ di esempio). Tuttavia, il cambio epocale non è favorevole alla condivisione di idee e al dispiego di forze in vista del raggiungimento di un fine comune. Checche ne dicano è così, non c’entra solo il capitale. Come accennavo, alcuni fatti mi hanno rischiarato le idee sulla mia condizione economica. Il feedback oggi come oggi è importantissimo, noi capiamo chi siamo anche dalle reazioni degli altri. Ecco, l’altro ieri la reazione della shampista ha contribuito a chiarire a me stessa la mia posizione sociale. L’ho incontrata al casalinghi, detto anche cinese sotto casa. La conobbi qualche mese fa, perché mi regalarono un buono da spendere dal parrucchiere dove lavora. All’inizio sorrisi e complimenti, la cliente è sacra. Ma io ero una cliente per caso, nel tempo lo hanno capito. Perciò adesso mi saluta con la puzza sotto al naso, forse imitando la titolare, la quale a sua volta porta avanti il lavoro di differenziazione sociale svolto incessantemente dalle clienti abbienti, quelle che si possono permettere il parrucchiere con cadenza settimanale. Io perlopiù semestrale. Sciolto un altro nodo, rimane il fatto di andare al bar in fondo al vialone a prendere un caffè con panna che per me rappresenta un lusso. La sequenza è questa: prendere il caffè, entrare in un grande magazzino per provare un profumo, poi ritornare a casa. Un po’ di gioia quasi gratis ci vuole.

A forza di raccomandarci di diventare imprenditori di noi stessi alla fine ci diventeremo, peccato che intanto i 30 sono arrivati a quota 50 e tutti insieme. Se fossi un’operatrice bancaria, sottopressione da parte del direttore, direi a me stessa, seduta dall’altra parte della scrivania, che serve una garanzia per giustificare il prestito. Innanzitutto c’è da capire chi ha investito in te in passato, trattasi di un investimento a lungo, medio o breve termine? Le probabilità di riuscire nell’intento sono considerate un po’ approssimativamente da fattori quali il capitale umano e sociale. Sempre di capitale si tratta. Il margine di rischio c’è, come in ogni avvio d’impresa. Quello che conta è ridurlo al minimo. Allora shakeriamo il livello di capitale umano e sociale, luogo di residenza, sesso, età. Il risultato completa lo studio di fattibilità dell’impresa, già iniziato prima di entrare nella banca immaginaria, dove sei l’utente, l’operatrice e il direttore. Dunque, calcolatrice alla mano, ti tocca promuovere te stessa nella pagine del mondo attuale, troppo grande e troppo piccolo al tempo stesso. La tua schienuccia che se ne va in giro a realizzare l’impresa, l’amore che senti per te stessa e che gli altri non sempre capiscono, l’accettazione docile di un imprevisto diventano pezzi in più di un puzzle già risolto. Eppure ci sono, andranno a completare un altro quadro del reale, più personale, ma poco condivisibile, a causa della solitudine e della sensazione che manchino parametri comuni in grado di farci capire dagli altri. Un bel paradosso in un mondo iperconnesso, in cui mancano i segni che rimandano alle cose più o meno bene, dove manca lo spazio per il mistero, quello spazio in cui ciascuno vede quello che vuole. Vagando a caso, altro che marinai ritti davanti al timone, il mondo c’illude che possiamo fare tutto e il suo contrario, in modalità no limits. Tanto nulla cambia, come se non esistessimo e fossimo solo fantasmi. Considerato che non c’è scampo all’illusione, mi piacerebbe scegliere l’illusionista. Non uno di marca, bensì sempre il solito caro corso dell’esistenza, perlopiù ingovernabile, nella cui sorte ci ritroviamo. Allora sì che staremmo tutti sulla stessa barca.

mgs

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L’amore fa i pallocchi

‘Io te vojo bene. Ma anche tanto bene’, disse Alessio al suo amico Simone. A settembre, ancor oggi, presenze sparute popolano la spiaggia. Sono i bambini. Essi arrivano alla spicciolata, come attori sulla scena di un film dove sta per succedere qualcosa. Il mattino appare strofinato con smalto turchese, il cielo emana una luce che non vuol finire. L’azzurro si specchia nel mare, finchè il tramonto si tinge di colori intensi, come se il sole si schiarisse la voce. Tanti anni fa, poco prima dell’inizio delle scuole, Simone ed Alessio, stavano per separarsi: ognuno sarebbe andato incontro alla sua vita fatta di scuola, compiti, lezioni di calcio. Quello forse era il momento giusto affinché avvenisse, ma chi lo sa qual è il momento giusto e se e quando avverrà. L’amore fa i pallocchi, si concentra in un punto del mondo, allo stesso modo della pasta dei dolci. Diventa una meringa grossa ma invisibile, un biscotto a forma di chiocciola. Da qualche parte c’è nonna Maria, dalle braccia robuste, che gira le forchette, sbatte le uova, amalgama il latte e la farina. Impasta, impasta. Aggiunge farina e rifà i pallocchi: quello è l’amore. Lei scioglie i grumi, girando velocemente le forchette. Poi ricomincia. Il pallocco d’amore sciolto, disperdendosi nell’aria, si comporta come gli atomi, posandosi e raggruppandosi a mo’ di uno stormo di uccelli nel cielo. Ma, nel momento che l’amore fa i pallocchi, il potenziale diventa energia come niente e tutto travolge in un’onda. Allora il marito guardò la moglie, sorridendo di dolcezza. In un cuore grande, disegnato sulla sabbia, ci si mise un bambino nella posa dell’uomo vitruviano. Insomma, bisogna farci caso a quello che accade quando l’amore fa i pallocchi.

Negli anni ’80, alle feste, echeggiavano canzoni intramontabili per i giovani di allora. A Natale le vacanze non erano le stesse della famiglia Covelli. “Moonlight shadow” la cantavano tutti, anche se non tutti sciavano dalle pendici delle Dolomiti imbiancate. Alla festa di pomeriggio di un compagno di scuola “Comanchero” si ballava eccome. Tutta la stanza da pranzo, attrezzata per l’occasione con tavoli stracolmi di cose da mangiare, risplendeva di nuove luci da discoteca, che pulsavano nel buio. Al centro della sala quella ragazzina ballava. Silenziosa e cicciottella, sembrava rinata a nuova vita. Le persone le dovresti capire nel loro habitat naturale, ma alle medie ti capivano in pochi. Alessio e Simone se ne stavano a chiacchierare e a mangiare patatine. Alessio la guardò distrattamente, giusto il tempo di appuntarsi nell’animo il monito di andare oltre le apparenze. Kaja googoo e Howard Jones andavano alla grande. L’estate iniziava sulle note di ‘Do you really want to hurt me’. La musica si srotolava al ritmo delle pedalate sulle strade di campagna. Quando i  genitori di Alessio si separarono, Simone costrinse l’amico a finire le superiori, andando tutti i giorni dell’ultimo anno a casa sua per studiare. Era l’89, il muro di Berlino era caduto, il mondo sarebbe cambiato, ma i due amici pensavano al loro temo come se sarebbe durato in eterno. Erano convinti che sarebbero rimasti tali e quali, per altri 100 anni. Il tempo passava. Trascorsero pure i sabato sera universitari nei pub, dove fare tardi e mettere i cappotti in macchina d’inverno, per non pagare il guardaroba. Dopo gli studi, Alessio aprì un ristorante innovativo, utilizzando prodotti naturali. Nell’aria c’era tanta ecologia e c’era anche chi era pronto a cavalcarne l’onda. Trovò un socio in affari, che poi fuggì con il ricavo. Ad aiutarlo ci fu Simone. I due ragazzi trovarono l’ex socio e gli diedero un sacco di botte, ma i soldi non li recuperarono tutti. Perciò, Simone divise il suo stipendio con Alessio, affinché pagasse i fornitori. 

Gli esseri umani quando ci si mettono a fare i seri ti dicono ‘te vojo bene’ e poi lo fanno. Chissà se ci sono ancora quei grumi d’amore sparsi dal vento a chilometri di distanza. Qualcuno li sentirà come si sente una specie di goccia cadere nell’occhio e alzerà la testa all’improvviso per vedere se piove. Forse, siamo qui per spargere atomi d’amore coagulanti.

Del Natale di qualche anno fa c’è una foto a ritrarre Simone e Alessio, in piedi, abbracciati e sorridenti, di fronte alla tavola imbandita. Simone aveva qualcuno dentro di sé, come ce l’abbiamo tutti, che non conosceva. Non era cattivo, faceva solo dei dispetti, ogni tanto si mostrava ritroso. Ma che ne sapeva lui e che ne sappiamo di tutto questo? Della gioia sì, perchè lei ti prende sottobraccio all’improvviso, anche se a volte guardi indietro. Nel sogno, oppure casualmente nella vita reale, di solito ci arriva un segno che tutto va bene. Qualcuno dice: ‘C’è un faro’, per esempio, allora tutti si tranquillizzano. Simone non sapeva di avere un vero di nemico: un cancro. Se possiamo ignorare i dispettosi che siamo a noi stessi, il tumore no, lui non gioca il gioco della vita. Se lo portò via in poco tempo. Ogni volta che Alessio guarda la foto, Simone gli manca come la milza, il fegato, un rene.

Intanto nonna ha impastato tonnellate di farina, uova e latte. Instancabile com’è aggiunge ancora farina, uova e latte, per fare pallocchi d’amore qua e là.

mgs

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Uno stato di grazia

I giovani non si rendono conto di quanto sia triste la vita degli adulti o forse sì. Laura fantastica su scene di vita familiare al supermercato. La moglie si è dimenticata di ricordare la mascherina al marito. Tra 10 o 15 anni, durante una cena, dirà che a lei non piace fare la domestica, la segretaria tuttofare, che detesta ricordare al marito di cambiarsi i pantaloni. Il coronavirus e le mascherine saranno un lontano ricordo. Il comportamento del marito, basato sul non sapere dove stanno le cose, affinché le cerchi la moglie, è un classico del genere. La sudditanza femminile cambia forma rimanendo nella sostanza sempre quella. Da giovani è un ever-green delle fantasie sul futuro. C’è una variante per spiriti raffinati ed è quella rappresentata dalla coppia dei calzini e mutande arrotolati nel cesto dei panni sporchi, per i quali occorre manodopera paziente e a buon mercato. A volte lei guarderà lui e penserà come sarebbe stata la vita con un altro. Mentre ciò succederà, si attaccherà di più al marito. Tutti gli amici saranno stupiti per finta dello sfogo, come quando uno dice una verità plateale e tutti a rispondere: ‘Ma noooo’. Alcuni sfodereranno lo sguardo più riprovevole e pietoso che avranno. Le donne di una certa età e anche qualche uomo faranno commenti sull’aspetto fisico della donna. ‘Ha le gambe grosse’, diranno. La gente si diverte a prenderti in giro, non gli importa se questo ti ferisce.

Come al solito, tutti dicono che non è vero, ma il mondo degli adulti fa schifo. E’ il mondo che hanno creato loro. Sarà che si fanno un po’ schifo da soli. Gli adulti, che gente! Tutti talmente imbottiti di frottole e contenti di esserlo, come nemmeno le scimmie sanno fare, che le bugie svelate diventano pallonate sulla faccia. Tutti è la parola più importante, si capisce dagli spot pubblicitari. Dobbiamo essere tutti, vederci e riconoscerci nella tuttaggine.

Laura ha un arcobaleno di emozioni negli occhi. Se chiede, gli altri non ascoltano, fanno finta di non vedere. Lei non c’è.  A volte scorge nel fidanzato un’espressione fugace, simile allo scodinzolio del cane. Se ne stupisce e un po’ la preoccupa, come se fosse troppo importante per lui. A volte, invece, ha l’impressione contraria. Sarà colpa del bisogno di monitorare costantemente l’indice di gradimento altrui. Per saperli pazzi di me è sufficiente che io li veda pazzi di me, si domanda. A casa accende la tv, durante un dibattito si parla di discriminazione. Il discorso si concentra sulla possibilità di accogliere gli stranieri, sembra il chiacchiericcio dei bar, ma più elegante. Subito ci stanno quelli che rizzano le orecchie e fanno mossette di disapprovazione, cercando tra sé e sé un cantuccio per sentirsi meglio, oltre a valide giustificazioni per continuare a discriminare in modalità politically correct. Questi qui fanno parte del gruppo dominante, non hanno bisogno di essere riconosciuti da nessuno. Sono loro che riconoscono. Nel frattempo la moglie fantasticata da Laura ha una vita triste, fitta fitta di obblighi. Da varie parti, vedi giornali, inchieste, manifestazioni, è giunto il modello di donna criticabile, che già da bambina controlla le altre, affinchè siano come le vogliono. La lei in questione è invidiosa e prevaricatrice, da grande vuole sposarsi e avere figli per esistere veramente. Una volta assolto al dovere sociale ed essere diventata madre, stilla gelosia e rivalità tra i figli, poi se ne compiace. Riceve forza dal rimprovero della figlia per una trascuratezza presunta o reale, fa lo stesso. Questo le dà la sensazione di avere il controllo sulla vita dei suoi figli. Tale versione viene scartata per esautorazione: il c’è ma non si vede, il metti-leva, con cui non si va da nessuna parte. La sua di moglie da piccola aveva le idee più chiare su ciò che sentiva di essere, per questo gliele intorbidarono. Lei voleva diventare un’insegnante, di quelle insegnanti che insegnano, evitando di imporre agli altri cose, idee o altro. Laura tifa per la sua versione, quella che poi le cose hanno preso tutt’altra piega. Allora dà per certo che lei vorrà cantare, ma avrà paura che le parole le si smorzeranno in gola. Farà lo stesso l’entusiasmo. Quando riderà, non andrà fino in fondo, la bocca s’asciugherà, stendendosi in una linea orizzontale, neutra. Affacciarsi allo specchio le farà venire in mente quella volta che aveva aperto le finestre della casa al mare, sul blu. Allora entrava aria e salsedine. Questo sarà il ricordo di un fatto accaduto più o meno in quel modo, cambiato dal tempo, adattato allo stato d’animo attuale e che poi misericordiosamente salterà fuori.

‘Nella vita non ti aiuta nessuno’, dice la madre. Laura ha sempre avuto paura di crescere, è terrorizzata dagli adulti. Una volta raggiunta la maggiore età ha dovuto scegliere se continuare ad essere libera, oppure se rinunciarci e dare la colpa ad altri facendo loro del male. Con tutta probabilità aveva appreso il modello darwiniano dell’esistenza, pur non essendo convinta della validità degli argomenti. ‘Mi limiterò a nascondermi sotto le pieghe di un atteggiamento naif per non fare torto a nessuno’, pensava, ‘mio marito era cattivo per educazione. Lo avevano cresciuto così e lui non mise mai veramente in dubbio il valore di tale insegnamento’.

Fateci sognare, stupiteci! Quello che i giovani non dicono agli adulti. Laura spulcia gli annunci di lavoro. E se a 56 anni risponderò a questo: cercasi personale per pulizie allo stabilimento X di Ostia lido? E’ un nascente mattino d’estate, quando il sole va a braccetto con noi di quaggiù. Lei si trova da sola in mezzo a piazza Sirio come nel deserto, tra macchine sporadiche che sfrecciano sulla strada. Il cielo veglia col suo bagliore mattutino, l’aria trasporta da lontano giochi da spiaggia e voci sotto gli ombrelloni. Appesantita dal tempo che passa, un tantino dimessa, si avvicina allo stabilimento. Un rapido colloquio decreta l’imminente assunzione a trascinare carrelli nei corridoi dello stabilimento, indossando un grembiule e scarpe da lavoro. Per festeggiare scappa in spiaggia. Si fa un bagno veloce tra bandanti e anziani a riposo e torna a casa.

Da giovani si gioca con i sogni, sicuri di poter riavvolgere il nastro e imprimerlo di nuovo con nuove immagini. Il movente di Laura è fuggire dal recinto di doveri da assolvere, oppure un bisogno al pari di mangiare, dormire, vestirsi. Che fanno le altre? Non avendo il coraggio di rivendicare un posto nel mondo, cercano di occupare spazio nella vita degli altri, come per esempio la compagna di scuola che tagga per primo Claudio, il suo fidanzato e ci mette pure un cuore, oppure come la tentacolare zia Carla, moglie del fratello della madre, la quale raggiungerebbe per telefono tutti gli appartenenti all’albero genealogico del consorte per controllarli meglio. Il prototipo di donna acculturata incarnato dalla dirimpettaia parla ad alta voce sul terrazzo, sicché la devi sentire per forza. Subisce la tentazione di uscire fuori dal seminato e canta Bella ciao al nipote, come se si trattasse di una canzone da villaggio turistico: ‘Bella ciao, ciao, ciao. Su le mani, tutti insieme’. Laura vorrebbe urlarle che è una deficiente.

Il fratello Gianni è andato via di casa 2 anni prima, a 19 anni. Nessuno ha avuto notizie di lui. Allora ha fatto scalpore, se ne sono occupati anche i giornali, poi niente più. Non una voce, uno sguardo di comprensione: ognuno per la sua strada e fa che la mia sia migliore della tua, questo è stato il tacito messaggio della gente. Laura da allora ha dimenticato la sua infanzia. I ricordi non sono più stati come bolle di sapone che a bucarle rivivi quel momento. Assomigliano invece alle foto, incastrati da una cornice per non dilagare nel presente. E’ un sistema che hanno inventato gli adulti quello delle foto incorniciate e messe sui mobili. In fondo sono presenze che non disturbano l’indifferente quiete dei signori perbene.

All’inizio dell’estate si fa colazione col sole che splende alto nel cielo. Laura pensa alle cose stupide che fanno gli adulti. La gara a sembrare brave persone raggiunge il top della classifica. La casa dello zio è in aperta campagna, la cui soave tranquillità è spazzata da fattarelli avvilenti. Di quello, per dirne uno, che ha venduto un terreno con un piccolo difetto. ‘Ma basta non andare troppo per il sottile’, parole criptiche del tizio, ‘tanto qui c’è gente che ruba le pere dall’albero’. A sua volta, quello che le ruba, potrebbe indicare altre diavolerie e via dicendo.

Laura sognando può scegliere. L’estate le è complice, nessuno si sognerà mai di giudicare l’estate. Claudio, invece, sogna l’estate di quando era bambino. Siccome spesso si incastrano dimensioni temporali, epoche, pezzi di vita diversissimi che accadono simultaneamente, nella stanza accanto sta per entrare in scena il problema della riparazione del chiavistello della cantina condominiale. La madre ha chiesto un intervento, poiché da lì è facile salire ai piani, in particolare al suo appartamento. La madre, letta la mail dell’amministratore, che comunica il parere negativo espresso da alcuni a sostituirla, regola a stento la rabbia mentre si prepara per uscire. Chi chiede mette in luce l’altrui carognaggine e ciò rappresenta un problema. Infatti, se non ci fosse chi chiede, non esisterebbe neanche la carogna. Nello stabile ci sono parecchi schiacciasassi vestiti bene. Diana, la madre, non riesce a farsi scudo delle cattiverie altrui. Vorrebbe prendere a calci il chiavistello e mettere tutti davanti a un fatto compiuto come riesce ai prepotenti. Vorrebbe sfondare la porta dell’aldilà e chiedere se hanno visto il figlio passare di lì. Anche questo vorrebbe. Deve essere un mondo in cui loro ci vedono e vedono le cose che succedono. Tuttavia, il loro intervento è affidato al caso, come chi prende il fiocco nella giostra di paese. Ma neanche d questo c’è certezza.

Laura prepara lo zaino per andare al mare. Sulla spiaggia libera semi affollata di gente s’affacciano i balconi delle fantastiche case al mare. Le case al mare sono leggende, fanno sognare più i grandi che i piccolini, poiché le loro finestre s’aprono sempre su mattini d’estate e meravigliosi giorni futuri. Le stanze delle case al mare sono inondate di blu e di luce ad ogni ora del giorno. I panni stesi testimoniano le sere all’aperto, le lenzuola dicono di comodi e lunghi soggiorni fatti di quotidianità: bicicletta, giornale e fornaio. I giorni sono tutti felici quelli che nascono lì dentro, hanno il sapore delle vacanze anche d’inverno, di chi la vita la prende per il lato buono, si rilassa e non sbaglia quasi mai. La casa in cui abitare è come un vestito a fiori da tirare fuori nel momento giusto.

E’ un sogno da adulti la casa al mare. Ma non s’intende gli adulti seriali quelli alla Mazzarò, attaccati alla roba, no. Si parla di adulti che sognano come ragazzini. ‘L’estate somiglia a un gioco, è stupenda, ma dura poco’, dice la radio. La madre la guarda prepararsi. Pensa a quando d’estate andava a spasso con la canotta e si vedevano le forme. A vent’anni il corpo è bello sempre. Per lei la povertà è una goccia: stilla dentro, scava. La povertà è un pensiero fisso, ti irrigidisce, a volte, ti porta via con la mente in vincite improvvise che ti cambiano la vita. Al ritorno dal trip è come cadere dall’aeroplano. Più che la ricchezza vorrebbe il potere di far fare alla gente quello che vuole. Diana ha bussato a centinaia di porte: chi non ha aperto, chi gliel’ha sbattuta in faccia e chi ha aperto per approfittarsene. Su di sé ci sono i segni di tutte le tribolazioni. Fare soldi è stato il suo pensiero fisso per anni, un’ossessione imposta da fuori, che neanche è lavoro, è fare soldi, cosa assai diversa. La madre ha avuto paura di non averne, la brama di averne tanti e al tempo stesso la paura che, se ciò fosse accaduto, qualcuno, che so, con la falce in mano le avrebbe chiesto la vita indietro, la salute, un medico criminale le avrebbe asportato il fegato per sbaglio. Vite, centinaia di migliaia di vite sacrificate sull’altare dei dio denaro, simile a un rito antico con le vesti moderne, smart. Vite con indosso il costume di scena 5.0, quello delle macchine che interpretano le emozioni umane. Fighissimo! Per facilitare il compito delle macchine che le stana è opportuno provare emozioni il più possibile standard. Non bisogna avere segreti per l’e-commerce. Adesso la madre lavora in una università privata, orienta i fanciulli e fanciulle su cosa faranno da grandi, insomma taglia il folto fogliame al passaggio dei bambini nell’età adulta.  

‘Domani dico a mia madre che voglio andare in America’, pensa Laura, ‘dove non ci sono chiavistelli da riparare né gente che non lo vuole fare per principio’. ‘Andrò in un posto in cui esistono tribù che cantano canzoni, in cui le amiche non ti taggano il fidanzato mettendoci il cuoricino. Voglio andare sulla luna e poi su marte, come la canzone della donna cannone sparata nel cielo’, dice girandosi verso Claudio. C’è la spiaggia di notte e miliardi di stelle. ‘Quella ieri non era lì’, osserva il ragazzo sdraiato fuori della tenda. ‘Noi giriamo, ieri era prima di adesso’, risponde Laura. ‘Ah, è vero’, commenta ammirato il giovane. Lei sa sempre cosa dire sule piccole cose che accadono. Perciò, quando lui si lamenta di non vedere stelle cadenti, lei gli suggerisce di spostare la testa velocemente a destra e a sinistra, così pare di vederle.

I giovani procedono lungo il cammino verso un domani. Chi guarda il cielo notturno lo sa che domani è un luogo oltre che un tempo. Un poi dotato di dimensioni spaziotemporali, annunciato dalla luce, ancora spento nella notte. Pare l’assaggio di eterno. Le stelle cadenti infuocate illuminano percorsi notturni in fiamme. Laura sprofonda nel Natale dell’anno 2056. Il fratello siede con tutta la famiglia intorno al tavolo e lei non deve più spiegare agli altri ciò di cui ha bisogno o desidera.

Mentre la popolazione si scaglia contro quello o quell’altro, obbedendo a una megaideologia invisibile abile a nascondersi e a farsi più grande di quello che è: divide et impera, cioè nulla di nuovo, è la verità che rimane semplice, limpida, un qualcosa di materico, munito di un dove e un quando. Gli adulti mettono maschere, sono così strette che alla fine pensano sia la loro vera faccia, scrive Laura a bordo del libro. Lei osserva la madre quando parla con gli altri. Non sempre esce la sua brillantezza, come una gemma opaca e stanca, non splende. Invece la madre spesso splende, ma la devi cogliere nel momento giusto, come la stella del cielo, la cui luce attraversa spazi immensi per raggiungerti e ciò sembra che accada in un attimo. Anche il baluginio interiore di sua madre è qualcosa che ha impiegato anni per nascere e crescere. Sembrano i cerchi degli alberi a indicare gli anni, così quel guizzo è una stalattite del cuore. Ci sono segni lenti a rilasciare la loro giusta luce, non sai mai se ce la faranno, ma tu li guardi formarsi. Uno di questi cerchi l’ha formato il compagno della madre. I due stanno sempre insieme, ma, quando lui deve partire per andare al paese, pare spinga un pulsante e viva un’altra vita, catapultandosi altrove. Saluta Diana al telefono dicendole ‘cara’, con un distacco caldo fuori e freddo dentro, tipico dei benestanti, il che la disorienta come un vento dispettoso. Questo la fa gridare al pericolo. Aziona velocemente la leva e chiude il portellone appena in tempo per sgusciare dentro. Il vento è invece amico della sorella, la zia di Laura. Una donna sui 50, romantica, che ama stare per i fatti suoi, mentre con la mente esplora sempre nuovi modi di stare al mondo, al fine da rendere la quotidianità meno noiosa di quello che è. Ad esempio, ultimamente il suo desiderio è di creare un laboratorio sul riciclo creativo: a che può servire una vaschetta della mozzarella, i lacci delle buste di plastica e il rotolino della buste della cacca dei cani? Domande queste che, se poste alla scolaresca, potrebbero dare interessanti sorprese nelle soluzioni proposte. Al momento è occupata a raccogliere conchiglie sul litorale romano, per guarnire una rosa dei venti. Ma non una qualsiasi figurina decorativa, no. Trattasi di un progetto di abbellimento della parete esterna della casa, circondata dal terrazzo e sotto il sole osservatore, muto, come un occhio sempre aperto sulla realtà nostra. Questo perché, se si troverà, un giorno, per caso, in balia delle onde, su un mezzo di fortuna, saprà esattamente quale vento la starà per travolgere. E’ come giocare d’anticipo con il destino, tirare la slot-machine e figurarsi le combinazioni che usciranno.

Se tu non ci sei più, allora il male esiste. Vorrei scappare via. Le parole prima di addormentarsi.

Al mattino sulla spiaggia non c’è quasi nessuno. Solo le case aspettano con docile pazienza una storia nuova. Da lì, dai loro balconi, è facile vedere una ragazza che corre in una limonaia con il suo cane. Le corse pazzesche nelle strade, con la musica in testa, gridando e ridendo. E gli amici dalle facce aperte alla vita. La gioventù è uno stato di grazia. Il riverbero lontano di ciò si ha negli ultimi giorni d’agosto, tanto per fare un esempio. Quando la quiete e il silenzio separano gli individui, i fatti brutti e quelli belli gli uni dagli altri. Calma e silenzio sono due arbitri di pugilato, si muovono con destrezza facendoti presagire che possa avvenire qualcosa di buono. Allora leggi i segni: l’incontro con l’impiegata che dice di avere un’amica che ti assomiglia tantissimo, una parola da te pronunciata e l’espressione di lei come se la stesse pensando uguale uguale. Gioco al tennis con i pronostici, i buoni propositi pronti a prendere al balzo il segnale favorevole a cominciare un’impresa.  La magia, a volte, si fa sentire ancora. Certo, in forma contenuta, non come in gioventù allora hai la vita davanti e infinite possibilità. Hai la forza, un po’ di follia per credere che tutto sarà realizzabile. Quello che accade dopo è solo una copia sbiadita.

Qualcuno penserà che negli anni Laura e Claudio si sono persi di vista, quei discorsi sulle stelle cadenti siano diventati un ricordo lontano e che, magari, grazie al potere indiscusso dei social si siano scambiati un saluto formale su messenger. Gli anni, precisamente 36 da allora, hanno travolto la gioventù, cambiando i loro volti, i pensieri, lasciando un’eco nostalgica per un tempo denso di vigore, di corse, di musica e canzoni spensierate, glorificando senza saperlo l’età più splendida che un essere umano possa vivere.  Con il senno di poi si può ben dire che la rosa dei venti voluta dalla zia abbia avuto una qualche ragione di esistere. Laura e Claudio sono diventati rispettivamente una sarta di abiti teatrali e una guida locale specializzata in itinerari enogastronomici. Lei, nel suo atelier, circondata da abiti indossati da manichini silenziosi, fa rivivere la sua donna delle pulizie, che ora si sente Tosca, ora Carmen. Una volta le ha donato le vesti di Antigone, indicando nelle pieghe cosa avrebbe voluto fare. Claudio nelle sere d’estate invita gli ospiti dei Resort a gustare l’essenza dei luoghi. Vivono assieme da tanto tempo. Hanno realizzato: prima di trovarsi bene l’uno accanto all’altra e poi di volersene. Laura non ha mai potuto smettere definitivamente di dire ciò che desidera o di cui ha bisogno, soprattutto a se stessa.

E poi, un giorno di dicembre, ha bussato alla porta un ragazzone striminzito, con gli occhi colmi di cose viste. Era Gianni, mancavano pochi giorni al Natale.

mgs

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Il saluto al sole

Assertività, corse nelle strade

della città. 

Le panchine nel parco,

i tavolini dei bar all’aperto.

Mano nella mano

a vincere su bagliori obliqui

e sulla malinconia del tardo pomeriggio

che vola via dai finestrini dei bus.

Raggi sghembi

ci prendono fuori fuoco.

La scena giusta

sulla mappa dell’esistenza

è il quadrato di luce,

riverbero delle faccende sue

e dei suoi fratelli.

Gli astri proiettano

da lontano.

Un raggio dritto

ci colpisce per caso,

lucida la mente,

siamo ancora vivi.

Ingrati, soprattutto.

Sputiamo su ciò che amiamo,

come una pianta

che cresce storta,

fautori del bene di trincea,

distratti inseguitori

della ribalta.

Il sole cade giù a caso,

come punte di spillo

fa male.

Una goccia d’euforia

stilla nel cuore,

è il primo respiro

di una nuova era.

mgs

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Il permesso di circolare

Dopo venti giorni di quarantena spuntarono dei messaggi sui social, che esortavano a cambiare prospettiva. ‘Voi non siete reclusi in casa’, dicevano, ‘siete protetti in casa’. Io non volli cambiare prospettiva. ‘E’ un incubo’, pensavo dopo una settimana. Alle 19,00 giocai con la gatta, tutti i giorni. Cambiai i vasi alle piante, dando loro la giusta attenzione. Le piante non si muovono, muoiono o vivono, crescono, si riproducono. Non se ne vanno, non ti rimproverano. Dopo 10 giorni avevo sistemato il terrazzo, pulito casa, letto libri, scoprii che la mia vita non faceva tanto schifo come a volte pensavo. Mi aggiornai di continuo, anche per verificare se c’era o no un’apertura per chi aveva un orto e doveva andarci. Mi aggiornai di continuo e seppi che il governo aiutava gli svantaggiati, cioè coloro che a causa del virus erano rimasti a casa. Va bene, decisi di partecipare, unendomi alla frotta di mendicanti. Io la vedevo così, ma non potevo fare altrimenti. Più o meno nell’immediato emerse una considerazione: io non cercherò più lavori di merda, aspetterò che arrivi quello che voglio fare e non deve essere di merda. Be’, ci stava. Però, c’era un però. La corsa ai buoni spesa&company mi deprimeva. ‘Siete dei poveracci’, ci dicevano sotto sotto. ‘Lo facciamo per aiutarvi’, aggiungevano. Ah! Prima del coronavirus eravamo invisibili, ora visibili. Mi aggiornai sulla libertà di scegliere e seppi che non c’era limitazione in situazioni di emergenza sanitaria. Comunque, la nostra libertà l’avevamo limitata da prima per salvaguardare la nostra salute, cioè per mangiare. Perciò, questo concetto lo padroneggiavo bene. Loro dov’erano durante queste importanti conquiste del pensiero? Altrove, ma non faceva niente.

‘Dopo non tornerà nulla come prima’, dicevano. Questa suonava come una promessa. Allora ripartii con brio e con un pizzico di imbarazzo per il fatto di mettermi davanti a qualcuno che non m’aveva cercato, non mi conosceva né m’avrebbe conosciuto se non avesse avuto bisogno di me. Bisogna reinventarsi, esprimere capacità e rendersi utile: fai la spesa a quella, porti i cani a quell’altra. E vai, a varcare porte, per entrare nella stanza dei desideri, delle tue aspirazioni e delle tue paure, ma rigorosamente della misura giusta. Chissà se puoi circolare e tornare a casa? Questo scherzetto m’è costato una decina di me che mi sono lasciate alle spalle. L’ho fatto per adattarmi alla vita che cambia. Cercavo un ragionamento logico per raccapezzarmi, è venuto fuori questo: la voglia di vivere mi ha permesso di adattarmi. E vai, a cambiare forma e contenuto. Poi quest’altro: la saggezza porta con sé l’equilibrio. Tutto sommato, preferivo l’incoscienza, l’arroganza e gli sbagli delle età passate. Benessere, gioia, salute erano le scritte che campeggiavano sopra la farmacia del quartiere della signora. Portavo a spasso le due cagnette, guardando con occhi diversi una scena nota che, ad un tratto, mi appariva insolita. Dunque, diverse ere fa c’era la gioia, ma non il benessere. L’equilibrio manco lo cercavo. C’era l’energia, non sempre la salute. Un essere perfetto, con tutte queste cose dentro mi suonava triste. Poi la scritta niente, cioè buio, fine. La luce dell’insegna sulle parole cura e vita non funzionava. Non era tanto per la seconda, che ha sempre avuto il suo fascino e un posto di rilievo nella canzoni di Vasco Rossi. Era per la prima, la parola cura, molto rivalutata alla fine del millennio, anche dalla magnifica canzone di Battiato e svuotata di significato da altri come una coscia di pollo disossata. Non avevo ancora voltato l’angolo, che vidi in fila: vitalità, equilibrio, serenità, vigore e forma. Stesso principio: vitalità e serenità fanno a cazzotti. Equilibrio potrebbe andare d’accordo con vigore e per quanto riguarda forma è una parola troppo vaga. Si intende forma fisica? Oppure forma vs contenuto? O, ancora, forma e sostanza?

‘Chissà che vogliono da noi’, pensavo. Che ci vogliamo bene perché mettiamo la crema sul viso tutte le mattine e che abbiamo energia, cioè un movimento tutto sconclusionato, come un pallone grande in una scatola piccola. Punto A: l’energia si affloscia se ti metti la crema tutte le mattine, così come prescritto dall’ordinamento pubblicitario. Punto B: se ti metti a sorseggiare la tisana sul divano con la coperta sulle gambe rasenti l’esistenza di una pianta. Ora, pare brutto se un giorno ti svegli e ti senti la Marianna che guida il popolo rivoluzionario e l’altro ripassi la lista della spesa a tappe, nell’interesse economico e morale della famiglia. Un altro ancora ti svegli, ignorando sia il sole, sia le promesse che fa, oltre ai pochi che ancora se ne invaghiscono come pazzi. Il discorso filava, finché a maggio la luce maturò sempre più e sempre prima. Il sole ormai era superman, non potevo ignorarlo. Al mattino apriva il petto, lasciando schizzare fuori i suoi raggi che, velocissimi, alla velocità della luce avviluppavano il mondo con un bagliore potente. Per fortuna aprivo ancora la finestra, vedendo le cose un po’ diverse da come erano. Ma come erano le cose? Aprivo la finestra e scendevo in strada, la percorrevo in direzione di una nuova avventura. Andavo con le mie borse sulle spalle, dentro e fuori. Facevo questo, facevo quello. Lavoravo per un prestito, macinavo chilometri a piedi. Il Prof. in tv diceva che la vita non è come siamo abituati a viverla, noi siamo troppo comodi, troppo bisognosi di cure. L’avevo intuito, non sapevo dirlo e neanche se dirlo. Sì, aveva ragione il Prof., poiché, percorrendo quelle strade, con le borse sulle spalle, intanto qualcuno cambiava scenario senza farmi vedere nulla. In testa avevo la corsa a ostacoli per raggiungere l’obiettivo. Consideriamo che il cittadino/a medio, di età tra i 18 e i  55 anni, ne deve avere sempre uno in tasca di obiettivo, anche se, con o senza di esso, fa comunque il criceto nella ruota. Intanto prendeva spazio la realtà degli altri nella mia. La realtà degli altri era ingiusta? E io percorrevo la mia strada. La realtà degli altri era folle, senza senso? Io sempre camminavo. Insomma io percorrevo la mia strada e, di quel farsi nero come il cielo di ‘Ghostbusters’ e gonfio del precipitare di eventi, non ne sapevo niente. Con quel macchinista bislacco ancora ci devo parlare.

Comunque, l’amore è un mistero e su questo non ci piove. La vicina della signora cui portavo a spasso i cani era sprovvista di mistero. Era una snob, finta umile, paranoica, ipernormalizzata, svezzata a colpi di istituti formativi di prestigio, musei e cultura con funzione decorativa. Il risultato da laboratorio era un coacervo di superstizione e pregiudizio. La tizia era arrogante q.b. per renderla parte della sua classe sociale. Invece la signora era solo spirito, di corporatura robusta. Esponeva la nostra provvisorietà all’aria e al tempo che la corrodono. La signora aveva tante cose in casa, ma si vedeva che non gliene importa un fico secco. Lei aveva anche tanti pensieri, messi uno sopra all’altro. Quando gliene scappava uno dalla bocca, questo era la sintesi sconclusionata di tutti, come una goccia d’essenza, una verso ermetico. Lei spizzicava da un pensiero una parola, un’altra da quello successivo. Sapeva essere simpatica, il suo interesse consisteva nel conquistarti e fare in modo che tu facessi quello che diceva lei. Una volta andammo al parco, con i cani. Lei raccoglieva le margherite, io seguivo i segugi. A casa le mise in un vaso, ognuna in uno. Voleva realizzare l’analisi comparata dei petali, con l’obiettivo di scegliere il fiore che ne aveva di più, per spiluccarlo nel classico m’ama non m’ama. Asseriva che, all’aumentare delle probabilità, aumentava l’efficacia del test. Io replicai che le probabilità si basavano sul 50% dei si e sul 50% dei no, cioè le ipotesi che l’amava o non l’amava erano tutte e due vere al 50%. Siccome l’amore è un mistero e non il frutto di un calcolo matematico, l’elevato numero di petali era già una garanzia d’amore, se non di quello dell’altro certamente del suo. No, non era normale la signora, lei diceva la verità. Era per questo che trovavo facilmente la strada di casa. Tornavo con le cose sue, semplici come le margherite che raccoglieva. Io le lasciavo andare nel dirle e non pesavano mai, volavano via. In quel periodo riuscii a prendere un appuntamento dal dentista, per colpa di un ponte rotto. E’ un fatto assodato che i ponti sono utili, se rotti servono solo a far spendere soldi. Il dentista guardò la protesi, rigirandola tra le dita ed esclamò che era un gran bel ponte. Lui diceva che era fatto di zirconia, spiegandomi il motivo per il quale, se non rientrava al suo posto, non si poteva modificare facilmente. E ti pareva. Io mi immaginavo zirconia: un pianeta tra le stelle, popolato da esseri brillanti. Poco originale davvero. La cosa bella, però, era che anche da zirconia si poteva tornare facilmente indietro. Infatti, io e il dentista andammo su zirconia, come i ragazzi sul muretto a raccontarsi e scherzare e da lì tornammo a casa. Alla fine ci lasciammo, non pretendemmo il dazio: una mano, la milza, un pezzo di fegato, a mo’ di riscatto. Invece, niente, non prendemmo nulla l’uno dell’altra. Lui mi intendeva, facendo attenzione a non fraintendermi ed io facevo altrettanto.

La quarantena finì, non fece altro che porre un limite al rapporto materico con il mondo. Sembrava che tutto si fosse voltato dall’altra parte, con le braccia conserte e il broncio. Pretendere l’aderenza esagerata con le cose è un nostro difetto, ad alcuni, però, questo quasi li risucchia in altri mondi: quello degli insetti, delle piante e dei fiori, dei raggi di luce e delle stelle, a cercare la magia oltre la materia.

Voglio tornare ad essere gente di mondo, ad accontentarmi delle piccole cose, come quando il pomeriggio incontra la sera e tutto si fa calmo. L’aria profuma di fiori e di siepi. I vestiti leggeri promettono bene, sulle braccia nude svettano mani che afferrano coni gelato e sulla testa gli occhiali da sole. Nelle sere di primavera l’aria addolcita dal tempo sfiora la pelle, chiamando a stare fuori come una musica. E noi, seduti sulle panchine o davanti ai portoni, ci lasciamo guidare, inconsapevoli come animali che vivono senza saperlo. Desideravo questo quando finì la quarantena.

Poi sei andata via ed io varcai la soglia, entrai nello spazio del mistero della morte: una dimensione immensa, dallo spessore e densità che spariscono e ci sono al tempo stesso. Visti da lì eravamo tutti piccolissimi e quello che ci circondava era vano. I cartelli pubblicitari lungo la strada assomigliavano a scudi ridicoli, messi lì dal genere umano disperato. In quel luogo, non solo nel ricordo, ti ho trovata. E da lì tornai indietro, poiché nessuno riesce a sostenere a lungo la vista dell’eternità, durissima per la realtà che si manifesta. Avevo il tempo, la contingenza, il moto della terra che ci porta con sé. Essa mi risucchiava nel suo girare, come Orfeo dal regno dei morti per Euridice. Della nostra condizione mi rimase solo il permesso di circolare.

mgs

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Preparativi per Natale

albero nataleIl Natale sta arrivando. Si festeggia la rinascita della luce, che ferma il tumulto cittadino, le fabbriche e gli uffici. La gente vestita bene alza lo sguardo. Esseri ibridi vagano in completo griffato, attrezzati con accessori  tecnologici, un po’ cyborg, un po’umani. Essi salutano il ritorno della luce, anche se non lo sanno. La gente vive sotto un gigantesco orologio che segna le ore, scandite dalla curva del sole. A cercarlo nelle giornate nuvolose è un cerchio di luce soffusa. La gente vede solo il cielo sopra la sua testa, ma c’è tanto altro. La luce torna e con essa l’energia, disinnescando il big bang al contrario: un potenziale che si comprime e diventa un puntino nell’universo. Noi non sempre riprendiamo vita con una nuova esplosione, perciò vaghiamo compressi, dimenticando ciò di cui siamo fatti. E l’amore rimane nascosto. Un po’ per paura, un po’ per pigrizia, non facciamo l’inventario. L’amore si desta al suono della sveglia, a volte rimane a letto, mentre i nostri corpi vanno via.

Tonino ha tra le mani il bigliettino di Bianca, sua sorella. Le è caduto dalla giacca ieri sera, quando cenavano a casa sua. Lui se l’è tenuto in tasca, c’ha pensato come si pensa a un bacio perugina da scartare all’ultimo. L’immagine che ha di Bianca è filtrata da quella fornitagli dalla madre. Si è spesso chiesto se il suo sangue puzzasse di crudeltà, sensazione cui ha sempre rimediato consolandosi con una provvidenziale trasfusione del puro e buono sangue materno. Ora i dubbi lo intrigano, d’altronde cambiare punto di vista è un’impresa ardua e ha un prezzo. Se felicità fa rima con sincerità, allora tanto vale ascoltarla questa coscienza. Il conto si presenterà all’ultimo. Sarà sempre meglio di grattare e non vincere. Magari non è felice nemmeno quello che abita in una casa con vista Circo massimo. Questa è la Tonino way, per lui le cose non hanno profondità ragguardevoli.

L’amore è il bagliore che ha la gente negli occhi quando lo vuole per sé. E’ una richiesta, non un’offerta. Si mescola, come nei siti di annunci di lavoro e non capisci più niente. Piero ha paura dell’amore e anche dell’altezza e si capisce perché, stando su un ponteggio edile senza protezioni. L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro e noi nasciamo poeti, dunque, Piero è italiano.  Il ragazzo interroga il cielo rossiccio e calmo del litorale romano, lo guarda distendersi dietro le chiome dei pini marittimi, allineati all’orizzonte. Piero e Tonino, suo compagno di lavoro, fanno parte di un mondo che va al contrario rispetto a dove vanno loro. I ragazzi sono in piedi, su tavole di legno, a 20 metri dal suolo. Anche se non sanno dove stanno andando, implorano quel cielo affinché inizi a raccontare un’altra storia, quella che vorrebbero ascoltare, come facevano un tempo. Le storie di allora scaturivano come bolle da pozze d’acqua chiara, spinte da energia del sottosuolo, i sogni le visioni del futuro erano reali, stavano lì davanti per essere presi con le mani. Cosa faremo da grandi, guarda quello lì. Ecco, cose così. Aspettavano senza saperlo la nascita del nuovo giorno, da scartare come il regalo di Natale. Piero e l’amico hanno l’impalcatura a coprirli, che a sua volta è coperta da un telo raffigurante un’elegante foto pubblicitaria. E’ questa la realtà che piace, come le merendine senza olio di palma, va per la maggiore. Meno male che Piero è un po’ poeta, un po’ operaio, se no come farebbe a riconoscersi in un paese nascosto sotto un telo.

Tonino s’accosta a Piero, tira fuori lo smartphone, poi scatta una foto al cartellone di fronte, il quale suggerisce di acquistare da loro un funerale a soli 1250euro, precisando che è un’offerta e che non si può rifiutare. Il ragazzo la manda alla moglie, la quale gli risponde di andare affanculo. Piero l’aveva detto al capo, a mo’ di battuta. Il capo, che s’era appartato, pure lui gli aveva risposto allo stesso modo.

Qui non c’è nessuno. L’allegria di Piero è tipica della gente un po’ malinconica, è qualcosa di incontenibile, lo fa vibrare come una canna al vento, poi finisce. L’allegria improvvisa è la trama delle vite fatte così, va nel cesto delle cose dimenticate, a comporre il mosaico del domani. Tonino lo sa e fa il pagliaccio per rallegrare l’amico come faceva goffamente da piccolo con la sorella. Piero ha vent’anni e non sa cosa vuole fare nella vita. Non sa nemmeno perché si ritrova a lavorare per uno sfruttatore come Ciro, il capo. Sa che vorrebbe studiare ingegneria edile, per questo ha cercato un lavoro da muratore, per cominciare dalle basi, come dice lui. Piero non sa che il tempo passa, o meglio, non sa come passa il tempo. ‘Che passa accanto alla vita della gente o dentro la vita della gente e ne porta via un pezzo. E, mentre credi di avere ancora vent’anni, scopri che ne hai quaranta’. Nel bar echeggia: ‘You’re free to do what you want to do’, Camilla, la zia, ricorda se stessa ballarla nei locali di sera. Prova a rifarlo nella mente, ma si sente a disagio. Per fortuna i ritmi non passano mai di moda. Basta un attimo, con l’atmosfera giusta è subito ‘you’re freee’. ‘La libertà è una ciambella di salvataggio luminosa e colorata, quando gli altri si adagiano e seguono i pensieri sciagurati, tu, che sei libero, cerchi bei pensieri, per necessità più che per virtù. Ma è la libertà a permetterlo’, conclude la donna. Piero, col viso sulla tazzina del caffè, ascolta della zia il racconto di quando era grande, come dicono i bambini. Si volta verso la vetrata per salutare l’amico alla fermata della metro. Tonino abita in periferia, nella parte nord della Capitale. A La Storta ci vive anche Bianca, sua sorella gemella, che fa la restauratrice di auto d’epoca. La sua famiglia in verità è un disastro totale, i genitori Alfio e Lia hanno preso dei vizi radical-chic come la moda di fare i figli, ma di non prestare loro attenzioni, al contempo hanno mantenuto un atteggiamento rispettosissimo dei valori piccolo borghesi. Essendo strenui difensori della famiglia tradizionale, non ammetterebbero mai i loro errori. I genitori di Piero, Corrado e Cloe, fanno parte della classe operaia, gli piace il lavoro manuale, ma anche assecondare la tentazione di acquistare case e macchine per migliorare il loro status sociale. Fin qui non ci sarebbe niente di strano. Il problema è che, invece di cedere alla tentazione o di correre dal tabaccaio per comprare un gratta e vinci, loro iniziano a litigare, dandosi la colpa a turno per aver desiderato un acquisto imprudente. La tentazione di voler essere ciò che non si vuole essere sta zitta fuori e parla dentro, risiede nei buchi delle coscienze sconquassate, ma per fortuna ancora abbastanza limpide.

Cosimo, il fratello di Alfio, è in pensione, ogni tanto gira con un taccuino per annotare le cose della natura, come un Leonardo Da Vinci del XXI secolo. L’alba svela i suoi segreti detti in lingua comprensibile da chi vive in eterno, noi possiamo solo coglierne il senso. Il futuro del mondo è in questo dicembre che nasconde la primavera, come la bellezza si nasconde nelle cose. Volersi bene significa avvicinarsi per guardare meglio e farlo di continuo, come chi ha la convinzione di aver perso qualcosa. Questo è il pensiero di oggi, 20 dicembre 2019.

Sono le 18,30, è l’ora in cui il cerchio sta per chiudersi in cucina per la cena. Ma è anche quasi natale, la cui imminente venuta crea un vortice di gente nelle strade, di ricordi, di immagini e aspettative che s’affollano a casaccio. Corrado e Cloe sono in un negozio a provare delle scarpe. E’ un posto dove si fa da soli: si scelgono e si provano le calzature, il tutto avviene sotto le luci accecanti che piovano dal soffitto, come fossero un prolungamento degli occhi dei commessi. Le scarpe quest’anno sono il regalo che uno fa all’altra e viceversa. Cloe guarda il marito, intento a guardarsi i piedi, per essere sicuro dell’acquisto da fare. Cloe non può non notare che un paio di scarpe nuove non bastano a togliere quell’aria che ha la gente che s’è sempre arrangiata. Sui vestiti pesa qualche annetto di troppo e i visi sono consumati dai pensieri e dal tempo. Le scarpe nuove sono un modo per dire che le cose non stanno così. Esse rappresentano il dettaglio che spiazza l’abitudine e la logica del vedersi riflessi poveri, di coloro che sospirano scarpe e vestiti di lusso e non possono permetterseli. Certe cose non passano.

Tina e Lorenzo rappresentano il domani su una panchina vicino casa. ‘Non so come dirgli che siamo senza protezioni, che siamo vulnerabili. Dobbiamo pensare a noi stessi’, pensa Tina guardando con amore il fidanzato. E lui intento a cercare il Natale di quando era bambino, in cui tutto era magia. La bontà la potevi palpare con mano, l’aria sembrava densa di una materia evanescente. La delizia s’attaccava ai corpi, ai muri dei palazzi e sul selciato. Lorenzo cerca il suo Natale, perché l’ha perso, malauguratamente, nel tempo. Peccato!

‘Ciao, Pie’’, Tina e Lorenzo salutano l’amico . ‘Ciao’, risponde lui, mentre scansa la sciarpa dalla bocca e li saluta con la mano. L’essenziale eccolo qui, passa, portandosi via mille altri pensieri. Piero e i suoi amici si dirigono verso casa. “Ciao nipote”, sussurra Camilla, la zia di Piero, avviandosi alla macchina.  Lei vive in centro con Dario, il suo compagno. Giunta sotto casa, si fermerà dal fornaio, un bel negozio all’angolo con tanto di strisce pedonali di fronte, messe apposta per farci parcheggiare un’ex sessantottina con la smart. In quell’angolo le persone sono diverse da quelle che incontra quando accompagna la sua amica al reparto oncologia dell’ospedale. Anche se sono le stesse, sono diverse. Lì hanno un’espressione di sicurezza e prepotenza, più che altro di prepotenza. Al reparto sembrano pezzetti di carne vestita, sono fragili, misere delle stessa miseria che abbiamo tutti. Camilla vive in un palazzo bianco ed elegante, il suo rossetto è sempre di coloro rosso vivo. Lei ha 50 anni, è la sorella di Corrado. Da piccoli facevano a gara su tutto. Hanno smesso quando, il 21 marzo 1978, il giorno della primavera, videro un nido di uccelli, in cui c’era la madre con i piccoli. Stavano tutti insieme, sicuri e protetti dall’amore materno. Allora qualcosa si aggiustò e rimase intatto. La zia di Piero ama il prossimo sufficientemente, è rimasta umana, è solidale ed ecocompatibile, però non è una stronza. Lei ha conosciuto la lotta per la sopravvivenza e non se ne è dimenticata. Soffrire prima, incarognirsi dopo e dire cose giuste sempre dopo è facile e lo fanno in troppi. Camilla ha sofferto e non si è incarognita, perciò, non solo dice cose sensate, le fa pure. Con i suggerimenti che dà al nipote, mantiene intatta la freschezza tipica della giovane età, scongiurando un eventuale assalto predatorio, perché lo sa che è un attimo a dargli del bamboccione. Invece Piero ha l’antidoto, la caparbietà con cui si è offerto per fare l’operaio ne è la prova adeguata a dimostrare al mondo di non esserlo.  Camilla conosce la lunga lista delle critiche appropriate ad ogni target, il bello è che non la usa.

Bianca ha appena chiuso l’officina, poi entra in un bar per un caffè. Si sofferma ad ascoltare imbambolata e divertita il racconto di un signore. Questi confida al barista di aver perso l’assegno di un cliente danaroso, il quale era debitore da circa un mese. Quando il cliente ha saldato il conto, lui ha perso l’assegno. ‘E’ che i soldi sospirati uno non li vuole più, ha detto l’inconscio di quello’, pensa Bianca. Poi ha cercato meglio e l’ha trovato l’assegno. A proposito di cose scritte, Bianca fruga nelle tasche per cercare il suo biglietto. L’inconscio agisce in modo imprevedibile, si sa. Ti fa perdere i biglietti a casa di quel fratello caro, cui manca la profondità e la sensibilità, scappa come una scimmia ribelle e dispettosa. Uno che prende quello che capita, chissà cosa salva della realtà. Bianca sente un moto di affetto, nuovo e sincero, verso quell’essere gemello, che deve sopravvivere, gioisce di poco, s’annuvola per cose che non saprà mai. Tonino e Bianca sono piante, per loro l’amore è luce, un processo di fotosintesi.

Alfio e Lia stanno partecipano ad un vernissage, cioè ad una inaugurazione di una mostra di quadri di artisti più o meno famosi. La mostra, nota per le sue proprietà rinfrescanti e lenitive, agisce sulle menti stanche, infondendo il giusto ristoro dalle fatiche e dalle preoccupazioni. L’umidità danza intorno ai lampioni di luce giallastra, bagna le strade, annuncia la notte. Nel bistrot del centro, dove si consuma l’evento, la partecipazione è scandita da gesti rituali: l’omelia dopo la presentazione della mostra è un lungo affondo sulle condizioni dell’arte e della cultura in Italia. L’omelia si ascolta seduti. Ci si alza dopo, girovagando con lo sguardo fisso su un quadro e poi sull’altro. Si commenta sottovoce e ci si guarda le spalle. Poi si va al buffet, con cautela, per non passare da cafoni. Alcuni se ne fregano, azzuffandosi per accaparrare il più possibile. Tuttavia il buffet non discrimina abbastanza come vorrebbe la norma borghese. Meno male che c’è il rispetto dei convenevoli. Per esempio, ‘ciao cara/o’ è d’obbligo. Per i più veraci c’è anche il saluto, simile al gesto di pace. Autentico o no, il gesto di pace fa sempre il suo effetto. Bisogna guardare oltre la gente stretta nei cappottini dai 2.000euro in su, oltre le pellicce finte, sovrastate da gioielli appariscenti, per accorgersi che quella gente elemosina calore umano, tradita dai sorrisi mesti, dalle troppe noie quotidiane che emergono dai segni sui visi e dagli occhi rassegnati, talvolta vuoti. Di questi benestanti, che in fondo stanno bene, nessuno scriverà il vuoto che gli rimane in gola: un groppo che non va né su né giù. L’articolo del giornalista presente, di sicuro ce n’è uno, includerà l’elogio dell’artista. Te lo immagini lui o lei in piedi sulla sedia, per la recita della poesia la notte di Natale. ‘Peccato aver avuto sempre bisogno di qualcosa o di qualcuno’, sussurra Lia nell’orecchio del marito, ‘perché m’ha resa fragile’. Sperando che di lui non abbia mai avuto bisogno, Alfio avvolge la moglie nella giacca. Entrambi prendono la porta per fumare una sigaretta. Sanno a memoria le reciproche forme sgraziate, esteriori e interiori, sono vicini di cuore e si guardano con quello. Uno starsi accanto così inclassificabile e inutile non s’era mai visto. La famiglia è un concetto sopravvalutato, sponsorizzato da tutti gli enti governativi perché fa sistema, tranne nei casi in cui sfugge alle categorizzazioni, alle pubblicità e ai mutui. La famiglia è un fenomeno di particelle calamitate che si raggruppano tutte al centro, se lontane cercano altre calamite.

Alle 20,00 sciamano tutti a casa: Corrado e Cloe con i loro regali, Piero, Alfio e Lia, Bianca, Camilla e Dario, Tina e Lorenzo, Cosimo, Tonino e la moglie. Mancano 5 giorni a Natale. In tv sta per iniziare un un gioco a quiz confortante, il quale culla e tiene la popolazione unita sotto lo stesso tetto nazionale. E’ giunto il tempo di divagarsi: un’onda azzurra, i soliti sospetti, fumo di Londra, traguardo e fatica, se sei bravo ce la fai, un attore offese un altro e adesso fa la parte del cattivo nel film in uscita nelle sale.

D’estate, invece, a raccontare un’altra storia sono le passeggiate al chiaro di luna, l’astro che ora entra dalla finestra, posa il suo raggio chiarissimo su un lembo della coperta e rimane da qualche parte della mente, nel ricordo mai sopito che fa bene. La luna dentro casa entra senza bussare, parla una lingua di cui si comprende solo il senso. Il suo tempo non scandisce le ore, ma appare infinito, sfiora i nostri limiti come l’onda bagna i piedi a riva e poi scappa. Le buche di quartiere sono l’ultimo pensiero della giornata di Cosimo, solleticano la sua fantasia, tant’è che s’immagina di trovarci un vaso antico e di mandare in giro la voce della maledizione che aleggia sul reperto. Cosimo, archeologo furbo, scrive già la notizia da dare al giornale di quartiere, tanto, prima o poi, se ne troverà uno.

MGS

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Poco e spesso.

lampioni

Settembre. E’ svanita la malinconia dei tempi della scuola e il bagaglio d’inquietudine nel fare a chi è più alla moda. Le giornate sono una sbaffatura dell’estate. A settembre il sole è stanco di ardere, per questo si riposa sul cielo limpido. Al mattino l’aria è fresca, ché poi si sta bene al mare, sulla spiaggia senza quasi nessuno, a guardare intorno quel che si farà. I progetti iniziano ogni autunno, le passioni stemperano e lo sguardo si disperde ovunque. Non si sa dove andare, eppure si va. L’autunno dice il vero alle nostre coscienze mai chiarissime. Io amo l’estate, che illude. Detesto l’inverno, quando sfianca le forze. Lo amo, però, nelle giornate brillanti di sole come vetri lisci e lucidi.

Il nostro tempo è lineare, ma le stagioni si susseguono ciclicamente. La spirale in cui siamo presi non ci fa capire con esattezza cosa succederà. Può essere che un giorno dirò: ‘Questa è la stagione più bella della mia vita’. C’è stato un tempo in cui ho desiderato essere come quell’amica di una mia amica, che lasciò il fidanzato perché non l’amava più. Perciò, lasciai il fidanzato e il lavoro, che non ho mai amato, per cercarne un altro da amare, sia di lavoro che di fidanzato. Oggi mi ritrovo a desiderare di essere come la signora Anna, che passeggia sulla ciclabile per tenersi in forma. Anna vive in un palazzo abbracciato da una gigantesca bouganville. Immagino anche la sua soddisfazione nel dedicarsi a cose che le piacciono, senza stancarsi troppo per il resto. Insomma, può essere che mi sia scocciata di farmi il mazzo per nulla.

Giusto il tempo di scendere le scale e sono in strada con Orlando, il mio cane. I lampioni sono fari guida per un viaggio insolito nella sera cittadina. Dall’alto vedono più di noi. Quello che emana una luce giallognola ammicca. Sembra un invito, il dare di gomito raffinato di uno abituato a mantenere il controllo di sé. Lo raggiungo, lui appena mi vede vuota il sacco, inizia a raccontare la strana storia della signora che definisce la ladyhawke  dei nostri tempi. Incuriosita seguo la vicenda. C’è una donna, che abita al secondo piano, terza serranda da sinistra. E’ sposata, ma condannata a non incontrare mai il suo amato. Uomo e donna sono entrambi vittime di una maledizione, sostiene il romantico lampione, che li obbliga a litigare da svegli e di notte, invece, a sognare di amarsi. Riflettendo su uno tra i tanti epiloghi felici della storia, giro l’angolo. Avverto un senso di trepidazione, come chi sta per salpare sfilando di tasca un biglietto anonimo con su scritta la meta, che, per adesso, è il prossimo lampione, a dire il vero più moderno. Esso risplende di luce bianca, discreta. Questo suo modo di fare spegne i pensieri strampalati, mentre la luce del primo ne aumentava il potenziale visionario. Ora, non so se sono gli anni della giovinezza ad essere passati o è il clima triste che si respira nell’epoca attuale, in cui la gente volta la testa altrove rispetto a dove guardo io. Non so. Fatto sta che manca la musica di allora, quella dei jukebox, che allagava il mondo, trasformandolo in una piazza gigantesca. Oggi pomeriggio, dal bar all’angolo, suonava quella musica e tutto sapeva di familiare. Il sole entrava di sbieco nella via, portando per attimo qualcosa che assomigliava al senso della vita. Lì si respirava dentro la giustezza delle cose che, stando tutte al loro posto, non richiedevano l’intervento immediato dell’essere umano atto a trasformarle, per renderle idonee e utili a se stesso. No, in quel momento non c’era nulla da cambiare: né il luogo né se stessi. E’ durato poco, solo che quel poco dovrebbe succedere più spesso. Questa è la storia che il lampione dalla luce discreta non poteva sapere.

Io e il mio cane siamo dritti davanti ad un’altra meta. Io guardo il nuovo lampione da lontano: un affare stanco e ricurvo, con dei trascorsi non proprio allegri. Lo possono comprendere i suoi compagni, quelli che illuminano le piazze deserte nei paesetti d’inverno. Il lampione è abituato alla solitudine, si vede. Non richiede compagnia, infatti è taciturno, sebbene abbia storie da dire: fatti e aneddoti accaduti sotto di lui da chissà quanto tempo. Come in quegli anni che illuminava le gesta di una comitiva di ragazzi e ragazze, tutti stretti stretti intorno alla sua luce, come pulcini, nelle sere della gioventù, a raccontare versioni abnormi e grottesche della realtà di cui si facevano beffe. Ridevano come cuccioli di animale e avevano progetti. Non come i progetti degli adulti, sfoderati dalle tasche alla maniera dei soldi. Lo fanno dimostrare di avere moneta spendibile nel loop dei doveri in cui si cacciano. Idee giuste, si capisce. Gli adulti sono pieni di idee brillanti e progetti da realizzare per sentirsi vivi. I giovani sono vivi, perciò hanno progetti da realizzare. Gli adulti devono andare avanti a tutti i costi, superando il proprio tempo, così facendo lo ingannano. Passano sopra a tutto e tutti come uno schiacciasassi. Se si sentono arrivati, parcheggiano dove c’è scritto di non parcheggiare, poi vanno al bar, a gustare una pastarella divinaaa… Fanno i complimenti al barista, domandando dove l’ha presa e lui risponde una cosa così, tanto che cacchio ne sanno e, soprattutto, che cacchio gliene frega. I giovani non hanno di questi problemi.

Procedo nella mia avventura a due passi da casa, avvicinandomi al prossimo faro nella tempesta casalinga. Posata la mano sul palo che lo sorregge, sento che mi offre sostegno e riposo. Non me lo aspettavo, indifferente come appare. Posso scagionarlo, infondo è solo rassegnato. In una stagione della sua vita s’era posto il fine di illuminare i volti di quella coppia che, di sera, stazionava sotto di lui. Le fronde degli alberi, però, coprivano la luce, tratteggiando i volti dell’uomo e della donna di ghirigori, forme vegetali, contorni fogliari, come fossero esseri sovrannaturali, metà umani e metà piante. I due parlavano a lungo, senza capirsi. Lei spiegava accuratamente i suoi sentimenti, lui aveva sempre una risposta adatta, impeccabile, di quelle risposte che concludono i discorsi. Lui non riusciva ad andare oltre le parole di lei, ad intuirvi una richiesta di attenzione e d’amore. Dopo numerosi tentativi fallimentari, il lampione concluse che la colpa era la sua, non era riuscito ad illuminarli come avrebbe voluto. Successivamente iniziò il suo periodo di stanca, sfociato nella rassegnazione di ora, che si manifesta nell’alone confuso della sua luce.

Da qui avanzo fino al mio portone. Esso è incorniciato da lampade soffuse, che annunciano la notte e di fare piano, perché la gente riposa. L’avventura rocambolesca del giro dell’isolato si conclude con il rientro all’ovile. Giro la chiave nella toppa. Entro nel portone, poi salgo le scale. Al primo piano c’è una signora che vive con il marito. Lei pulisce scrupolosamente il bagno tutte le mattine, da trent’anni. Al secondo una famiglia con due bambini di 4 e 7 anni, che tornano a casa alle 18,oo, poi fanno il bagno, mentre i genitori preparano la cena. La vita si ripete, perché nella continuità trova conforto al passaggio del tempo. Eppure queste certezze non soffrono di presunzione, gli basta sapere di offrire calore e compagnia. Tutto il contrario dei discorsi che facciamo, sempre gli stessi, con le stesse parole, per non dire altro. E, così, la musica dalle radio, le notizie dei mezzi di comunicazione, anche loro restringono il mondo in un cortiletto angusto. Poi disegniamo l’otto rovesciato,  parliamo di infinito.

Al terzo piano, un’altra signora accende la tv alle 6,30 del mattino, l’ora del tg. Mentre lo speaker annuncia le notizie, lei gira lentamente in casa, aggiungendo alla cronaca i suoi pensieri su come il mondo vorrebbe che fosse, rimestando dentro se stessa, per cogliere un sentimento affine al luce rosata del sole che sta per nascere. Di fronte e oltre la sua porta, un signore cicciotto, dai capelli impomatati e la faccia rossa, sistema i panni per la pulizia sotto al lavello della cucina, accanto ai detersivi. Si veste, apre la finestra per far prendere aria alle coperte, poi rifà il letto. Va in cucina, con il taccuino in mano. Una volta seduto al tavolo, segna le cose da fare nella giornata. Vive solo, ripara piccoli elettrodomestici, ma anche scaldabagni e lavatrici. Ha meno lavoro da quando li fanno per rompersi irrimediabilmente dopo la garanzia. Perciò, di tanto in tanto, impartisce lezioni di chitarra classica, la sua passione dai tempi della gioventù. Qualche ragazzino bussa alla porta vestito da nerd, per suonare accordi e trovarne altri: con se stesso e i propri sogni. Quelli che rimangono, mutando forma, come piante falciate, ma dalle radici forti.

Io abito al quarto piano, il bello di casa mia è che di notte si vedono le stelle, di giorno la luce. Comunque, sempre di stelle si tratta. Sui muri ho scritto versi di poesie e frasi di libri. Ogni frase o verso rappresenta una storia come l’ho vissuta io.

 

Manuela Grillo Spina

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Blu cobalto.

blu

Sono io che ti chiamo

da una terra arsa e desolata.

Passano gli anni.

Al ritmo del tempo,

attraverso infinite

distanze, risalendo ere,

strati di acque profonde e blu cobalto

di bolle cristalline: il pulviscolo

degli oceani. Volo poi,

su pianure assolate

e fiori rossi.

Non ho fatto che cadere, ultimamente.

Sono arrivata nelle profondità

della terra per riemergere,

zampillando come una vena

d’acqua allo stato brado.

Ho accorciato le distanze

con la felicità, che mi siede accanto,

finalmente, in un giorno

scintillante di mare.

Sono brava a riemergere,

compenso la condizione

che non ho scelto.

Negli anni non ho fatto che andare giù

e tornare in superficie,

come certe stelle lontane

milioni di chilometri.

Adesso sono stanca,

la felicità è più vicina

la posso sentire,

ne ho voglia.

Il richiamo dei gabbiani al mattino,

fermo immagine sui tavolini

dei bar all’aperto,

dove la vita s’organizza a caso,

interpreta una scena all’improvviso.

Il corpo invecchia,

con il bagaglio di cose andate.

Come quella volta che piovve

in un pomeriggio di giugno.

E poi uscì il sole.

 

 

Manuela Grillo Spina

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All’estate

IMG_0786[1]T’avevo detto di non lasciarmi,

di fermarti un po’ di più.

Anzi, non te l’ho detto.

Te lo dico adesso, chè a ricordarti

mi viene nostalgia.

E t’aspettavo, guardando

attraverso la finestra.

I vetri bagnati rimarcavano

la tua assenza.

Un giorno t’ho vista arrivare da lontano,

come un bambino che spunta dalla collina,

in un campo di primavera.

Sei la gioia mia,

bella d’ineguagliabile bellezza.

Sei la luce delle giornate più lunghe,

e spargi felcità,

come un incantesimo che passerà.

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