
Era l’estate del 1984. Mi ricordo una stradina di paese e un vicolo assolato. Andavo in bicicletta e c’era sempre il sole. Non faceva caldo, oppure non lo ricordo come un fatto saliente. Invece, ricordo la luce onnipresente in tutto quello che riguarda l’estate degli anni passati. Sull’infanzia, gli unici ricordi di sera sono legati alle bancarelle di piazza Navona, nel periodo natalizio. Solo da adulta ho iniziato a collezionare momenti da rivivere che si svolgono dopo il tramonto, perlopiù associati a giorni anonimi. Percorrendo in lungo e in largo la città, alla ricerca di un futuro da costruire, non posso dimenticare le vie del centro lastricate di sampietrini bagnati dall’umidità. Con l’immaginazione accesa dalle promesse della vita, le strade si popolavano di pattinatori danzanti e sarebbero state il set perfetto di quei quadri popolati a loro volta da danzatori eleganti, ombrelli, camerieri e un senso di solitudine da capire.
Un salto temporale di 38 anni mi riporta al presente. Perché riappare la me stessa di tanti anni fa, cosa vuole dirmi?
Il tempo trascorre e lo fa in modo insolito. Lui passa ed io, supinamente, lo assecondo. Il calendario è pieno di impegni da rispettare, ho la sensazione di stare all’interno di una clessidra, la sabbia mi cade addosso, riempiendomi gli occhi e la bocca. Le solite cosa da fare, sommate al frenetico trambusto cittadino, sono diventate il sottofondo quasi inudibile del reale svolgersi del tempo. Gente che va di qua e di là, parole su parole dappertutto: sul tram, al telefonino, in tv, nei video. Niente di tutto questo mi ha più coinvolto nel suo turbinio da quando ho azzerato il contachilometri della mia vita e sono ripartita, senza subire passivamente il giro inesorabile delle lancette.
Un giorno come tanti mi sono svegliata ritrovandomi sola, muovendo i primi passi nel mondo come se fossi stata la prima donna sulla terra. Intorno non c’era nessuno, soltanto un albero spoglio, che si stagliava nel cielo rosso infuocato dal sole, in un’ora vaga del giorno. Era lo stesso tempo dell’apparizione di quella ragazzina. Eva si deve essere sentita sola, questo è certo, perché lo era, ma anche estremamente curiosa di conoscere e piena di meraviglia, così come mi sono sentita io. Nel luogo dove mi sono svegliata non c’era la famiglia, non c’erano sensi di colpa o rimproveri. Anzi, non c’era nessuno, solo lei, cioè me stessa di tanti anni fa. L’ho guardata muoversi nel mondo, che aveva appena dato l’addio ai dinosauri. Lei era l’interno di un uovo schiuso, mi inteneriva e ne ero felice, per il piacere che dà ogni principio. I colori del cielo fattosi primordiale significavano niente, erano un’alterità assoluta. In tal modo emergeva la straniera, girovaga nelle lande sconosciute che ora chiedeva la ribalta. Chiedeva di essere la protagonista della mia vita.
Ora in tuta, maglietta e stivali esploro un tratto di campagna come fosse la prima volta. La felicità che provo nel farlo dipende anche dal fatto che qui ho camminato tante volte, ottenendo spesso lo stesso risultato. Perché questa volta mi abbia reso felice non so. Forse è l’effetto della bella giornata di sole, dell’aria tiepida o del colore verde scuro delle olive sugli alberi. Il finocchio selvatico un po’ ingiallito e lo svolazzare di insetti pigri restituiscono morbidezza all’aria fresca. Sarà la contentezza di essere a casa mia. Ogni volta c’è un motivo diverso. Io mi adatto all’ambiente, sentendomi una pianta tra le piante. In fondo, penso che la ragione più importante sia il potere degli spazi aperti, che nobilitano il sentimento della solitudine, mai preso in considerazione nella sua reale importanza. L’essere soli è una condizione comune a tutti. C’è stata un’idea o predisposizione mentale che mi ha condizionato a lungo. In tempi passati pensavo, infatti, che la solitudine fosse un difetto da rimuovere e che fosse anche doveroso aprirsi all’altro. L’impegno costante di fuggire la solitudine ha avuto delle conseguenze e dato l’avvio a numerose disavventure. Quella che ricordo d’emblée è lo stare nella parte sbagliata della tavolata. In pizzeria, con gli amici, scrutavo la disposizione delle persone attorno al tavolo, per capire dove dovevo mettermi, se stare tra quelli più brillanti o cenare in silenzio tra tutti gli altri. Invece, una delle conseguenze più importanti della fuga dalla solitudine è stata la ricerca instancabile di qualcuno con cui condividere le sensazioni che provavo davanti agli spettacoli naturali. Se non ci riuscivo o non potevo farlo significava che esse non valevano o erano addirittura inopportune. Volevo darle a qualcun altro. Il fatto che fossero mie e rimanessero tali, senza spostarsi in qua e in là come pacchi postali, non mi bastava. Così ho trascorso del tempo a riempire e svuotare serbatoi interiori di emozioni e intuizioni fugaci. Esse transitavano in lungo e in largo da me a parenti, amici e compagni, evitando che sentissi veramente ciò che stavo osservando con gli occhi. Ho cercato a lungo qualcuno che provasse quello che provavo io, nello stesso modo, con la stessa intensità e non l’ho trovato. Ora capisco, non volevo accettare la solitudine di un’immagine sola, cioè solitaria. Era un’immagine imperante, la quale, espandendosi, colmava il vuoto che creava. Un vuoto diverso da quello che c’era già, peraltro di tutt’altra marca.
Questo tramonto incide una linea di colore rosa scuro nel cielo. Finalmente sta in pace, senza nessuno che lo solletichi per fargli dire qualcosa. La luce affonda oltre l’orizzonte, bussando alla porta di un sentimento primordiale. Così come è lo vedo solo io. Il silenzio di un tramonto, il suo linguaggio muto si fanno spazio dentro di me. Con l’animo insaziabile, mi sono chiesta spesso se ci fosse tanta vita o poca vita nella mia. Gli sforzi nobili e la fatica compiuta senza risparmiarmi mi davano l’impressione di aggiungerne a dismisura, quasi a volerne fare scorta. Un’accumulatrice compulsiva di vita, ecco cos’ero. E poi ho corso tanto, per andarmela a prendere. Volevo più vita, ancora di più. Lei, dal canto suo, scorreva nella giusta misura. Sì, scorreva nella realtà di una luce particolare del giorno e nei sui colori, come sangue nelle vene. Così posso pensare che quella via di paese assolata, percorsa nell’estate da ragazzina, le strade umide di sera al centro della città, ma anche la striscia color rosa scuro del tramonto siano organi del corpo-meraviglia. Quando racconto a qualcuno: ‘Sai, oggi ho visto un tramonto’, l’altro capisce il tramonto convenzionale, quello vero per me è diverso. Quanto tempo passerà da adesso che lo comprendo a quando saprò dirlo con parole nuove, tutte mie, questo non so.
Mi gusto l’intuizione della vita nel suo rinascere e fluire come acqua di sorgente. Ma siamo sicuri che finire e ricominciare siano le parole giuste? Di solito attribuiamo azioni logiche alla natura, ma, in sostanza, sono solo proiezioni. La vita inscalfibile è semplice come le cose che esistono senza essere pensate. E’concretezza e trascendenza al tempo stesso. L’ho capito perché mi è apparso, ma ancora non so dirlo.
mgs