Come pensate che potremmo amarvi più della vita nostra, più dell’avventura cui andiamo incontro con i nostri compagni fidati: facce sfrontate di un’insolenza cosciente, che tagliano il vento contrario facendone stracci. Come potete pensare che le vostre lusinghe interessate ci rallegrino più di questo incontenibile sentimento di essere vive e che ci dolgano i vostri ingiustificati capricci dell’egoismo e della superbia. La donna che lavora per vivere, ovvero che senza lavoro non vivrebbe, ascolta il freddo del mattino, la fatica e le ossa rotte e risponde con spudoratezza. Aggiusta la graduatoria dei mali con discernimento: al primo posto c’è la sferzata offerta gratuitamente dalla vita, la fatica per mangiare, avere un riparo per sé e per chi si ama, poi il resto. Anche la donna occidentale nutre da tempo un ragionevole dubbio sulla natura dei guai sentimentali, persuasa com’è della sua innata superiorità che non trova riscontro nei fatti. Bravissima, a detta del solito circoletto, quelli con la tosse arrogante che la sfruttano, ma sola e per di più afona. Ci pensa. Intanto sta con un uomo che la irrita solo a vederlo.
I tormenti sentimentali erano il tributo versato per entrare a pieno titolo nel sistema che garantisce la sopravvivenza, oltre che false ma rassicuranti certezze. Cosa rimane degli strazi, pegni dovuti a uomini indecenti? Dimenticati, mentre le lacrime per il freddo, la fatica e le ossa rotte non li dimenticherà mai più, così come non dimenticherà la gioia di poter contare su se stessa. Non che quei tormenti amorosi fossero ridicoli. Ridicolo e malvagio era lo spuntone dell’obbedienza e dell’obbligo, conficcato nell’animo di donna. Il pungiglione del dover essere e dover sentire ciò che gli altri si aspettano da te. Dì che mi adori da impazzire, implorano gli omuncoli bisognosi di una conferma mentre maltrattano la donna. No che non ti adoro, perché sei un coglione, pensa lei. Poi, se fa tutto il contrario e si dispera, la schiera di anime morte si rallegra. Con i denti aguzzi e luccicanti le dicono: ‘Sii infelice come noi!. Dai, unisciti al nostro gruppo DIC (disperati inconsapevoli per convenienza). Sii buona, non costringerci a invidiarti, ad augurarti la mala sorte’. La ucciderebbero: lei con quel desiderio di amare e loro, carogne, che fingono di esistere e di essere buoni. A un tratto spegne l’interruttore: adesso basta!. Buca quel pensiero, fluttuante come una bolla di sapone senza rivendicare la propria esistenza e ammette: ma come potrei amarvi miseri esseri succhia sangue. E scattano le manette: le anime morte, invidiose della determinazione femminile, gemono come bestie dannate. Già, prima era normale, ella si disperava e stava male, ora non è più normale, desidera.
Come potremmo amarvi più dei nostri amici di una vita e perche mai dovremmo?. La donna aggiunge un altro dolore: la morte, che conquista il primo posto e si interroga cercando dappertutto (dov’è?, forse in quell’angolo oppure è lì, tra il mobile e la credenza. Devo guardare meglio, perché un significato lo trovo sempre). Adesso i neuroni si defilano per inadeguatezza confessa e rimane il sentimento e l’indicibilità che lo avvolge. Cos’è questa sensazione: il viso pare che vada in pezzi, gli zigomi in terra e gli occhi che rotolino sul pavimento. Io so che tu non sei più qui né in nessun punto della terra, eppure non voglio non amarti. Nella graduatoria del dolori il peggiore è sicuramente la morte. Dunque, era fasullo quello strazio amoroso: non sei con me e vorrei non amarti, per non soffrire, ma so che tu ci sei da qualche parte, nel mondo. Che amore era quello lì?. Amavamo, appiccicandoci addosso sentimenti preconfezionati, ma comprensibilissimi, senza chiederci se fossero quelli veri. Ora un pensiero si inerpica con fare amorevole, per comprendere gesti e sentimenti inseriti nel flusso del tempo ed essi risultano inintelligibili. Lo smercio di una cultura su misura per il genere femminile ci ha ingannate. Società ipocrita, cosa ci ha insegnato sull’amore?. Solo la sofferenza d’ordinanza e lo strazio dovuto alla spocchia maschile. Voglio ben pensare, dice la donna e non frodare me stessa come fanno i benpensanti. Solo così il languore e la mancanza non oltrepassano l’amor proprio, ma trovano sistemazione nell’amore stesso che ne mitiga gli effetti. Quale raggiro è stato ordito ai danni di un genere dalla specie umana, deficiente in sentimento. Se ci fosse la Facoltà di Sentimentologia, il rettore sarebbe un cane, un uomo o una donna, ma senza museruola.
Quella volta che eravamo tutti col viso in alto c’era la guerra. Allora prendemmo ufficialmente il vostro posto nei campi, nelle fabbriche e facemmo con voi la lotta partigiana. Se i nostri muscoli dolenti avessero potuto parlare, avremmo dimostrato molto prima la nostra non ‘innata’ debolezza. Dopo, ci ritrovammo di nuovo tra la cucina e il tinello, la domenica sedute accanto a voi sul divano, ad annoiarci davanti alla tv, suprema conquista del benessere, cui furono sacrificati gli anni di miseria, di guerra e di morti. Pertanto, oggigiorno, avremmo l’ardire di sperare, in particolare che i nostri visi possano affiancarsi di nuovo, ma con il sorriso, non con la paura cagionata da un arbitrio scriteriato. Ah! Nella graduatoria dei giorni felici non ci siete. Eh, no. Anzi, siete sullo sfondo, da cui, per convenienza, molte di noi vi riportano in primo piano dicendo, per esempio, che il giorno più bello della loro vita è quello del matrimonio. Per altre è il giorno della laurea (nell’istantanea il fatto di sbalzarvi in pole position è abbastanza pratico e non richiede sforzo). Per qualcuna il giorno più felice è quello più felice, quando l’apparato ridondante sparisce e rimane l’inconfutabile esistenza del mondo e la sua vaghezza, mentre la gente si dimena convinta che la sua vita di merda sia la realtà. Allora, si sgretola la monumentalità delle regole sociali erette a difendersi dalla vita, e si svela una trama nascosta. Lì abita la felicità e altro che sfugge allo sguardo bendato dai paraocchi delle convenienze.
Ci hanno detto che l’essere umano crea realtà con l’immaginazione e con la parola. Ebbene ne siamo capaci. Abbiamo risposto al monito e appreso molto sulla facoltà di sentire. Come voi proiettiamo i nostri desideri sugli altri. Poi, a cose fatte, abbiamo constatato che le vostre fantasie diventano subito realtà oggettive e le nostre rimangono solo fantasie, per giunta declassate a fisime. Nonostante ciò, ci siamo accorte che le nostre fantasie non sempre sono ‘troppo grandi’. Perciò, ci siamo prese la libertà di chiamare Amore le parole sussurrate, gli sguardi appassionati e timidi degli uomini sinceri, concentrandovi storie lunghe un’eternità. Come fate voi. Solo che, a causa del magico effetto della proiezione, quella sincerità era più nostra che dell’amato, il quale, sbrigandosi a negare il languore dei suoi sguardi e delle sue movenze, ha subito ristabilito l’ordine cameratesco e il segreto che vi lega e che nessuno deve confessare. Vale a dire che nessun uomo è libero di dimostrare la sua statura morale, per non far sfigurare la vostra (e per non produrre un disastroso effetto domino sulle vostre devote gracchianti). Comunque, noi siamo differenti anche in questo, noi avremmo creduto alla ‘verità’ delle proiezioni maschili e avremmo accolto i complimenti interessati e i giudizi adulatori, ignorando che la libertà di sentenziare non si esaurisce in quelli positivi, ma rivela presto il rovescio della medaglia. Quindi, per evitare il tranello della proiezione, ci siamo messe a scrivere, a disegnare, a cantare, a ballare. Come non fate voi.
La donna, con la graduatoria dei dolori e delle gioie tra le mani, tende l’orecchio per scovare parole simili alle non parole suggerite dal linguaggio misterioso del mondo. Qui, c’è un racconto in cerca di uditori, che non afferro, ma sento. Intende dire ciò che è o sarà dicibile.
Manuela.