Rodolfo e Dario suonano alla porta dell’atelier. Nessuno risponde. Dieci, venti, trenta, quaranta minuti, ma Clara è lì. L’hanno vista soffermarsi alla finestra, loro guardavano Clara e Clara li guardava. L’hanno sentita ridere come un ruscello d’acqua limpida. La stanza del cucito è illuminata, le altre sono al buio ma non per questo non esistono. Lo spazio dell’utero-atelier non ha centro né periferia. I muri delineano il dentro e il fuori. Solo al catasto risulta un appartamento ubicato nel quartiere x, di una città x, e nei registri l’ampiezza, le dimensioni e variazioni.
Clara apre e i ragazzi sono disposti lungo le scale. Stanchi, ma determinati a vedere la fanciulla dei loro sogni. Rodolfo e Dario varcano la soglia. La porta si richiude subito su scampoli di mondo che penzolano come stracci. L’atelier è grandissimo, le stanze, quasi tutte comunicanti tra loro, lasciano vincere la compagna più illuminata. Si dispongono nella sala dove Clara cuce. Intravedono un busto con indosso una camicia bianca, così ampia che solo un petto gigantesco può riempirla. Olympe De Gouges, il petto che rivivrà nella camicia è quello di Olympe De Gouges. La femminista ante litteram, paladina dei diritti delle donne, venne ghigliottinata con un’esecuzione esemplare. Le altre, nel vangelo secondo il potere maschilista, non dovevano né dovranno mai ribellarsi. La pièce ‘Olimpia e Mary’ è ambientata ai giorni nostri. Olympe De Gouges e Mary Wollstonecraft, più vive che mai, siederanno in un parco pubblico a ridosso di una metropoli contemporanea e aspetteranno che si compia la rivoluzione delle donne. Mary Wollestoncraft, anche lei femminista nell’Inghilterra a cavallo tra i sec. XVIII e XIX, si fece portavoce dei diritti umani dichiarati durante la Rivoluzione francese, ma coniugati al femminile. Fu più cauta di Olympe De Gouges, schierandosi a favore dell’istituzione familiare. Ciò le consentì di tenere la testa attaccata al collo. Da autodidatta lottò per l’istruzione femminile. Morì di parto dando alla luce Mary Shelley che seguì l’esempio della madre e divenne una scrittrice. Rodolfo, giorni addietro, aveva letto di Olympe De Gouges e Mary Wollstnecraft in libreria: ‘Le donne che pensano sono pericolose’ di Stefan Bollman. Se lo ricorda ancora il titolo e il nome di Olympe che decapitarono perché la sua testa di donna dava molto fastidio all’ipocrisia delle convenzioni sociali e alla corruzione, allora, ma anche ora.
Clara toglie la camicia dal busto e la indossa. Conosce il canovaccio dell’opera e recita il prologo: ‘Come la donna ha il diritto di salire sul patibolo, deve avere altresì il diritto di salire alle più alte cariche’. Rodolfo e Dario sono molto spaventati, gli occhi di Clara lanciano dardi infuocati, che pare il giorno del Giudizio e la fanciulla non fa nulla per rassicurarli. ‘So di voi, venite spesso a trovarmi. Vi ho visto fare capolino dalla finestra, e che mi seguivate in strada. Mi sembrava di avere un manto da regina quel giorno, avvertivo una moltitudine di petti che vibravano. Come ali di farfalla vi ho portato addosso. Per favore io non voglio essere una regina a lungo. Devo dirvelo, se mi credete tale, lo fate per compiacere voi stessi’.
Rodolfo, che non va di certo in cerca di medaglie, reagisce alla provocazione, ma le parla come se fosse una sua coetanea: ‘Tu sei diversa, le altre hanno un registratore di consensi incorporato: a quello piaccio, il compito è andato bene o male, sono brava, bella buona o scarsa, brutta, cattiva. A te non importa di questo, io lo vedo’.
Clara guarda lontano, come se cercasse un dettaglio che le ispiri le parole adatte. Poi, assume una posa buffa: ‘Vivo se sto ferma’ e rimane immobile. ‘Vivo se mi muovo’ e si agita in modo scomposto. ‘Spesso ho pensato di vivere di più se sto ferma e ascolto’, continua la donna con l’occhio vispo, si sta divertendo parecchio. ‘Mi immagino un recipiente, proprio qui’ e indica il petto, ‘dentro di me e che le percezioni vadano a riempirlo, trasformandosi in carburante per l’azione’.
‘La metafora meccanica non me l’aspettavo’, Dario la interrompe dubbioso, ‘mi aspettavo un mondo di colori delicati e parole soavi’.
‘Caro… a proposito come vi chiamate?’.
‘Rodolfo, Dario’, i ragazzi rispondono in coro.
‘Quanti anni avete?’.
‘Ventiquattro e tu quanti anni hai?’.
‘Sono giovane, ho la vostra età’, Clara sorride e il suo sorriso placa il timore dei ragazzi.
‘Dunque, cari Rodolfo e Dario io sono un’idea, non l’avevate capito?. Ho i fiori nei capelli e gli occhi di ghiaccio, ma a volte i miei capelli si trasformano in cime di navi e gli occhi si addolciscono. Le linee disegnano curve morbide. Per intenderci, parlo di quegli occhi, non so se li avete mai visti, in cui tutto il mondo va a finirci dentro. Adesso cucio i vestiti per il teatro, un tempo facevo la lavandaia, stendevo bianchi lenzuoli che si agitavano come bandiere al vento. Così fieri, era una meraviglia stare a guardarli e di sera distribuivo le bibite in un cinema d’essai. E che altro… Ah! Ma, ve lo devo dire? Amo studiare, i libri, la parola generatice che non può fare a meno di un corpo. Non tutti gli intellettuali mi amano, alcuni si aspettano che gli appaia con la corona e lo scettro. A vedersi apparire una lavandaia con le braccia muscolose e il cuore che canta, aaahhh!!! Strillano. Mi hanno respinta. Non gli facevo fare bella figura e si pentivano di avermi desiderato. Eppure io ero lì, mi avevano chiamato durante gli anni di scuola o all’università. Quelli erano paurosi perché si accorgevano che esistevo attraverso i sensi. Temevano che fossi così forte da spezzare tutte le loro convinzioni fasulle in un sol colpo. ‘No’, dicevano e con le mani si facevano scudo, ‘non ti possiamo tenere’. Diventai una specie di mania, una chimera, un sogno da emarginare negli angoli bui della notte. Inventarono la notte e il buio senza luce. Gli altri, quelli che non ebbero mai paura della mia e della loro forza indomita, mi accolsero e così crebbi. Salii nelle sommità delle montagne, camminai a grandi passi sulle nubi e qualche volta, ma soltanto nei giorni di festa, feci qualche concessione e indossai vestiti regali. Mi chiamarono Libertà, uguaglianza, pace, fratellanza. Nei giorni di lavoro, cioè quasi sempre, tornavo a svolgere mestieri umili, perché un’idea può esistere soltanto nella realtà. Giravo nei mercati, tra le persone. Ecco, la gente. Non tutti sono stati buoni con me. Se certi uomini di pensiero mi disprezzavano, quelli del popolo avevano il terrore. E appiccarono roghi, scatenarono guerre, chi mi difendeva lo condannarono. Si inventarono dei surrogati che avessero il potere, almeno a detta di alcuni, di sintetizzare il senso di tutto o di espandere senza sosta un’unica matrice, frantumata in pezzi apparentemente diversi. Il denaro per esempio e il possesso. La maggior parte della gente ricorre a dei surrogati, perché non può avermi senza avermi. In tutti questi anni, diciamo pure secoli, ho pensato, perché anche le idee pensano, ho pensato che gli uomini vivano male l’alternanza di stasi e movimento. Io ce ne ho messo di tempo per comprendere che vivere significa ascoltare passivamente la vita, poi l’azione nascerà da sé. Passività sì, per ascoltare il discorso della vita e specchiarsi nella vita. Apparirò anche a questi un giorno, se mi chiameranno. Voi mi avete cercata e sono qui’.
Rodolfo e Dario guardano Clara con un’espressione stralunata, sorpresa, come a dire: ‘Macchè, ti abbiamo cercata?, ma davvero … Allora, non la casa, non la macchina, non la lavatrice, non il certificato di matrimonio, di laurea, la carta d’identità, il codice fiscale, tessera autobus, bancomat, bollette, spesa il sabato, week end splendidi con: foto, ristoranti, code al casello e ancora: applausi politcally corret, indignazione nella norma, e alla fine: ‘Grazie, grazie, il malato sta bene’, assicura l’assicuratore tastando il polso del cittadino/a x. Un respiro grande, l’immagine attraversa la testa dei ragazzi a mille km/h, un pensiero tutto d’un fiato: dunque è un’idea, quello che vogliamo è un’idea e adesso chi glielo dice agli altri… Rodolfo e Dario colpiti da un moto irresistibile di goliardia scendono le scale di corsa. Cinque gradini, un salto e i due atterrano sul tappeto, morbido e davanti alla faccia del portiere, uno dei misteri insondabili dell’universo. Gli occhi, due fori infossati in una faccia grassoccia, si lasciano sfuggire un baluginio di vitalità ancora non del tutto sopita, ma per queste cose non bisogna avere fretta.
Il portiere: ‘Buonasera’.
‘Buonasera!’, rispondono Rodolfo e Dario.
Lì fuori le rassicuranti bugie pendono come stracci. Nell’animo un’idea tangibile che, invocata, è diventata subito realtà.
Manuela.