C’è dell’altro.

bolleDio è solo Dio, la morte è solo la morte. Noi siamo un po’ Dio, un po’ la morte, poi c’è dell’altro. ‘Tu non parli’, mi diceva la mia amica delle scuole medie, quando veniva al mare con mia madre e mio fratello. Stavamo a Civitanova, nella riviera adriatica. Non ero di compagnia e lei si annoiava. Non parlavo neanche in comitiva, dove ero certamente meno popolare di lei. Le altre tutte brillanti e un po’ bulle. Mi ricordo che ce ne era una con la fronte alta, si truccava molto e s’aspettava sempre un ‘ohhhh’ di meraviglia quando faceva la sua apparizione. Chissà che fa adesso. Si chiamava Nicoletta, ora ricordo. Io vivevo nell’invisibilità, tranne quando nevicò a Roma, il 6 gennaio 1985. Allora mi truccai anch’io, più del solito e misi degli orecchini pendenti: bianchi con dei disegni colorati. Un ragazzo mi disse che ero bella. Sono così anche adesso, se penso non parlo. Parlo quando sono in vena e ho da dire qualcosa. ‘Tu non parli’, diceva l’amica mia ed era vero. Quelle parole mi sono rimaste dentro. Di cose ne avevo da dire, ma il pensarle e il dirle erano due cose differenti. Pensare e dire sono azioni compiute, come Dio e la morte: una volta agite rimangono lì. Allora esse non erano affatto legate da fattori di causa ed effetto, né dipendenti l’una dall’altra, ma separate, superbe e un po’ spocchiose, arrampicate sulla torre a braccia conserte. Almeno le mie. Incompatibilità ambientale, per questo fuggivano, più che per un mero capriccio. Le parole se ne andavano in luoghi introvabili e non era affatto facile riprenderle, così come ora non è scontato riprendere il filo del discorso interrotto della mia felicità perduta. So per esperienza dell’emozione dell’alba e mi dico: ‘Vabe’, ridivento quella che ero’. Ciò risulta in pratica più complicato, perché, tra l’affermare qualcosa ed esserlo, devi ritrovarti scandagliando il fondo.

Rimediare, mettere una pezza al cambiamento non voluto della mia prospettiva sul mondo e sulle cose. Quando ero ragazzina non sapevo che stessi cercando la felicità, ma adesso mi appare evidente nei risultati raggiunti e nel casino combinato per raggiungerli.  Quella colonna vuota al centro di me, che è l’anima, nel tempo s’è illuminata formando ombre e luci di forme più o meno veritiere. La gente è ipocrita, è metà e metà. C’è dell’altro, dunque, oltre la facciata smaltata. Le luci colorate e le ombre che prendono vita in quel cilindro vuoto mutano per forma e contenuto, scambiandosi ironicamente di posto. Non è il fare convenzionale del gioco sociale, è qualcosa di sfuggente, vivo come la vita del mare. La gente non sente nemmeno della musica di sottofondo ed è sbrigativo dire che bisogna stare in pace con se stessi per stare bene con gli altri. Io non sapevo che, per starmene in pace, avrei dovuto parlare di cose che sembravano non pensate da nessuno. C’è una specie di affinità tra queste e me, un tacito accordo di autoesclusione dalla realtà ufficiale come se fluttuassimo nell’aria come bolle di sapone: io e loro, le cose non pensate da nessuno. L’odore di resina, la pineta, l’altalena sono elementi d’affezione col mondo, è come avere indosso la spensieratezza e una maglietta a maniche corte. Per stare in pace con il mondo ho bisogno di sentire la musica, dove gli altri vedono solo cose: gli alberi, il cielo cittadino, il sole del mattino, la gente, uno sguardo. Ma il vero travaglio è trovare il modo di dirle queste cose, come le domeniche d’agosto cui l’inverno regala un cielo nuvoloso. Domeniche in cui ti svegli principessa, un essere annegata nel sonno e domani risvegliarti nell’ordinario lunedì dell’essere donna ordinaria. Incanto e disincanto. Forse, per alcuni vivere è più facile, dicono: ‘E’ tutto qui’. Per me no, c’è sempre dell’altro.

Manuela Grillo Spina

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Ho 48 anni, vivo a Roma, sono appassionata di scrittura
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