Alzati!

IMG_0744[1]‘E alzati’, dico tra me e me. Ce l’ho con quella che mi sta seduta davanti, lei indica con il dito qualcosa di importante fuori dal finestrino del tram. Una volta di qua, una volta di là, fa per alzarsi, ma non si alza. Che nervi! E’ pure straniera, forse inglese. Dunque, nemmeno il gusto di incazzarsi. Vorrei che il tram corresse nella direzione in cui devo andare io, senza fermate, senza tutta questa gente. Dove sei? E’ questa la domanda che deve avere una risposta. Poi, quella si alza, finalmente mi metto seduta. Il tram non accelera, anzi, scricchiola e stride ad ogni curva. Sembra un ferraccio vecchio, mi somiglia un po’. Eppure cammina. Il coraggio, l’amore, roba da giovani lontana anni luce dall’imbuto cosmico del tran tran quotidiano. Il tram, il tran tran. Non riesco a stare con te, ma non posso vivere senza di te. Lo so che bisogna scegliere. Te ne sei andato, anche se sei sempre con me come un pensiero che sta attaccato alla testa. Nel tran tran non c’è spazio per quello che vivo in questo tram. L’ansia di arrivare, di vederti e parlarti. Lo so, bisogna scegliere. Io scelgo il tram.

Dentro avevo un drago, adesso che ci penso lo sento ancora. Basta, non lo voglio il chihuahua che m’hanno rifilato. La moglie tradizionale è un chihuahua, la donna-persona un potenziale drago. E’ triste la prima, indefinibile la seconda. La donna-drago non ha contorni netti, preferisce lasciarli al vento, fatti d’acqua. Azzurra, viola, d’argento, è creatura misteriosa, viva e silenziosa. E’ un respiro grande che scandisce il ritmo vitale, impercettibile e al tempo stesso indispensabile. Impossibile strapparlo al flusso della vita. Nel tran tran è dormiente, schiude l’occhio di drago nel tram. Dunque, vivo. La prima pioggia di settembre apre la porta all’universo buio, in un altro tempo dal nostro. D’un tratto appaiono i vetri bagnati e i banchi di scuola illuminati dalla luce al neon, che arrivavano come bagliori di stelle da lassù. I pensieri più belli faticavano a prendere il volo, erano pioggia che s’appaiava ai temi, scandiva le ore negli uffici arrampicati sui piani dei palazzi. Pozzanghere e fermate del bus, rumore di clacson e gente con la faccia china sotto l’ombrello a ripararsi dalle gocce che cadono, ma non toccano i visi. Illusioni. Passerà, sembra che dicano gli altri. La pioggia d’inverno turbava i miei giorni di gioventù, non passava, perché allora tutto era senza tempo. La pioggia è un’eco dell’universo immenso e buio, in attesa di essere rischiarato dalle parole. La donna che venne dopo aveva occhi grandi, in cui s’imprimevano facilmente le nuvole bianche e rosa del tramonto. Io nel piumino rosso e nel bus assimilavo a strati le nuvole sfilacciate di forma, diventando vaga anche nel contenuto. L’aria del tramonto era placida come una madre che allatta, conteneva tutto. Era così allora, non come ora che il tutto vago fatica ad entrare nei bulbi oculari. Li meraviglia ancora, questo è certo, ma, gli stessi occhi, miei testimoni, aspettano a destarsi al gioco della vita. Troppi i pensieri inutili, avvertiti come limiti invalicabili, non come l’orizzonte che preannuncia l’infinito. Cerco la donna che aveva tutto negli occhi. L’incontro per caso alla fine di una via silenziosa e illuminata dal sole pomeridiano. Una macchina arriva e parcheggia nell’unico posto che c’è. E’ la fortuna che gira in questo angolo di mondo e poi se ne và, come la donna che ero. Nell’età che ho adesso, passa il tempo e passano le cose.

La gente vuole certezze, cose ben classificabili, in cambio rinuncia a tutta questa potenza. Ho smesso di avere 20 anni quando mi sono sposata, l’ho fatto all’età di 43 anni. La bella notizia è che ci si può sentire forti come un animale selvaggio anche dopo, fiere come lui e ciò è bene saperlo. Se avessi due carte da cambiare, cederei quelle con brutte vestaglie, cioè l’attrezzatura perfetta dell’immaginario muliebre. Baratterei i capelli sciatti, rivelatori  di arrendevolezza e occhi spenti, con la magnifica illusione giovanile di sentirsi eterni. Guardo con sgomento colei che, aspettando il treno, legge attentamente le offerte dei supermarket nel depliant.  Io ne prendo alcuni dalla cassetta della posta condominale per farne tappetini del bagno. Poi, ogni tanto, do un’occhiata. Al supermarket preferisco improvvisare. Uno degli effetti dell’illuminazione tramviaria è quello di sentirsi di nuovo nel mondo, a partecipare a tutto quello che c’è, stridendo e spalancando la bocca, dicendo: ‘Io sono’. Posso piegare l’acciaio, volare sopra le vette più elevate, ammiccare al sole, scivolare nelle profondità del mare. Non m’importa più del futuro, non mi preoccupa. L’animale che è in me gonfia il petto e sputa fuoco, soffia, torcendo la testa, ha l’occhio vivo ad annusare il mondo di lato. Assorbe l’attimo opportuno, per alzare lo sguardo, ricominciare con la bocca spalancata verso l’alto e le ali aperte. Ci sono le condizioni per amare la mia ombra ora che ne ho nostalgia; la preferisco all’ipotesi di perfezione, di una donna perfetta in una famiglia perfetta, ovvero un tritato di ‘devo’ e di ‘non fa niente’. ‘Alzati e cammina!’, dico tra me e me. No, non mi credo Dio. E’ che, parafrasando Woody Allen, bisogna pur avere dei modelli da imitare, per riportarci in vita e vincere sulla morte. E poi, che cos’è la propria ombra se non quello che interrompe il sorriso degli altri come una nuvola che passa nel cielo limpido. La vedo nel viso-specchio di Angelica, la signora anziana che osserva la mia ingenuità infantile simile alla sua. L’ombra è la malizia d’ordinanza, che spunta a sproposito sui volti non più giovani. Sguardi, volti come specchi, restituzioni, rimandi tessono la trama della verità. Nei volti femminili è minore lo scarto tra ciò che si crede di vedere e ciò che c’è. Si gioca di sponda, con lo sdoppiamento, moltiplicando le dimensioni del reale, nella luce che attraversa il prisma e fa succedere le cose.

Manuela Grillo Spina

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Ho 48 anni, vivo a Roma, sono appassionata di scrittura
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