
La spesa non va scritta, va tenuta a mente come fosse un’acrobazia del pensiero, sferzante, adrenalinica e corroborante. Poi, al limite, si improvvisa. Dunque, nell’ordine: lenticchie in scatola = 0,69 centesimi, fagioli in scatola o ceci = 0,35 centesimi, bustina di parmigiano grattugiato = 0,99 centesimi, olio buono. Verificare la provenienza dell’olio, sottolineato più volte. Questa sezione si potrebbe intitolare: l’inps e l’olio. L’impiegata domanda cosa c’è nel terreno. ‘Piante di olivo’, rispondo. ‘Ah’, dice lei, si capisce dove vuole arrivare.’E che ci fai con l’olio?’, incalza l’altra. ‘E’ per me’, spiego io con calma. ‘Tutto?’, insiste l’impiegata, sfoderando lo sguardo indagatore. ‘Tutto’, ribatto. Si sa che con l’olio buono è buono tutto. Allora, ritornando al pasto per due, più economico della soluzione minestrone pronto al costo di 2,89euro (un furto!), ‘potevi farlo tu’, dice. Una busta di minestrone pronto dal fruttivendolo egiziano costa 1,50. Però il suddetto fruttivendolo ce l’ha da ottobre, al massimo dalla fine di settembre. Ci vuole tempo per cuocerlo, eh già. Ma vedi, d’estate non è solo questione di tempo, la temperatura esterna di 35/36° scoraggia l’accensione del fornello. Perciò, la scusino lor signori se non vuole squagliarsi come una candela. Questa viene così, ci deve essere lo zampino dell’impiegata dell’inps a controllare che la gente non viva al di sopra delle proprie possibilità. Ma che ne sanno dei tour canonici nei supermercati in cerca di quella cosa che lì costa meno e di quell’altra che costa meno altrove. Il riciclo in questi casi non è un virtuosismo di cui parlare durante l’aperitivo, ma una missione. Il rivestimento interno dei pacchi di crackers possono essere riusati a mo’ di tovaglietta, da piazzare sotto la ciotola della gatta, l’acqua dei panni riutilizzata per lavare le copertine del cane. No, non è la vita in un campo rom, è casa di una donna di mezz’età. E’ casa mia.
Fuori si sente parlare dell’importanza di essere imprenditori di se stessi, di meritocrazia e di competenze. Ansia a gogò. Diventare imprenditori di se stessi è un must, ma ha dei lati positivi, come un calmante zittisce l’incessante bisogno di affermarsi, accompagnato alla frustrazione e alla paura di non farcela. E dai a sbracciarti: ’Io ci sono, io ci sono. Adesso ti dico quanto valgo’. Solo che l’imprenditore ha bisogno di un capitale da investire, anche quando si tratta della propria vita. La vita è un insieme di eventi, alcuni voluti altri capitati, dal sapore vago e dalla durata indefinita, su cui nessun imprenditore, viste le incertezze della riuscita, investirebbe tanto. Allora perché associare la statistica all’indeterminatezza che caratterizza l’esistenza? Una risposta non c’è, rimane soltanto il gioco d’azzardo. Intanto fuori spopola la propaganda sull’immigrazione. Strillano di restare umani. Comunque, nottetempo qui si spara ai cinghiali. E’ strano, questo mondo è strano. Partecipo alla manifestazione contro l’uccisione selvaggia degli animali, sento le testimonianze, soffro. Soffrire in certi momenti della vita risulta una novità, è un’opportunità data a noi stessi per dire: ‘Presente!’. Rispondiamo all’appello senza nasconderci. Ad un tratto ci si rende conto di aver usato l’obbligo di fare soldi e il bisogno indotto di dimostrare il proprio valore a mo’ di anestetici, per giunta con la prescrizione. E’ un modo per farsi di plastica, di non accorgersi di soffrire a causa dell’indifferenza di chi ti sta vicino per esempio. Lasci correre su tante cose della tua vita, perché altre hanno la priorità. Sento chiaramente l’obbligo di considerarmi una macchina per produrre e, soprattutto, consumare. Mi vengono a dire che dobbiamo restare umani, mi fanno vedere la gente a casa che fa il pane e si diverte con la famiglia. Però, c’è qualcosa che non torna riguardo al fatto che siamo un grande paese. Intanto che aspetto di realizzarmi in qualità di imprenditrice di me stessa cerco lavoro come dog sitter. Provo con una cooperativa che fornisce servizi alla persona. La stessa cooperativa cerca candidati. Alla fine del colloquio apprendo una cosa importante: per lavorare devo corrispondere una quota per coprire i costi del servizio fornitomi. Dietro la scrivania ci sono immigrate e si capisce perché, queste persone parlano la lingua giusta dei loro connazionali badanti, colf, operai. In una città come Roma, se sei in cerca di lavoro, basta prendere la metropolitana per capire la strada da percorrere. Ci sono quelli che parlando al cellulare, si esprimono con frasi del tipo: ‘Stasera ti giro la mail’ e sembrano fatti della stessa sostanza della parole dette. Essi/e (scritto politically correct) sono impiegati o liberi professionisti. Poi ci sono frotte di stranieri e straniere che puliscono le case dei primi, guardano i loro genitori, portano a spasso i loro cani. Questi gruppi di persone parlano anch’essi al cellulare, nella loro lingua. Ogni tanto fanno riferimento al loro lavoro. Ciò si intuisce perché infarciscono lo spagnolo, il rumeno, il filippino con parole italiane del tipo ‘signora’, oppure ‘signora arrivo’.
Girano troppi messaggi contrastanti e svianti, come quello che devi ascoltare il tuo corpo. Poi lo ascolti, diventi te stessa e vuoi cambiare vita, ma non è detto che gli altri ne siano contenti. E allora non dite che devo essere me stessa. Il fatto è che io voglio veramente la me che sono, gli altri vogliono che io sia quella vogliono loro. In ogni caso m’incanto dei sogni che faccio, belli davvero. Il mio inconscio è intelligente. A volte mi pare materico, tanto si fa sentire, fatto a forma di cubo sbilenco alla Picasso. Quello che mi dice la testa è la ricerca di un tondo fatto di cielo, azzurro con ali di uccelli in volo. E’ il cerchio verso cui fuggire ed è vero, più vero dei percorsi fatti dove corre l’obbligo d’amare. Nel frattempo mi nascondo. Vado alla fiera del libro, pieno di stands di case editrici, uno accanto all’altro. C’è tanta gente che sta bene. Passa, guarda, s’incuriosisce, parla. E’ colta e raffinata. Probabilmente questi hanno tutti una bella casa, delle comodità, un buon lavoro e pochi grattacapi. Uno schermo proietta l’intervista fatta a una regista emergente. Osservo il suo viso, la faccia della gente riuscita, per cogliere quel nonsoché che la rende speciale. Sarà la piega agli angoli delle labbra, il modo di gesticolare convinto, partecipe e contenuto al tempo stesso. Deve essere lì che si nasconde la differenza. Comunque, per questo motivo oscuro e per altri evidenti, io non sono come loro. Al ritorno a casa, infatti, mi avvilisco. La mia è piccola, fredda d’inverno e calda d’estate, si sta un po’ scomodi, ma la amo. Mi sembra di essere caduta dalle nuvole con un atterraggio di fortuna. Sono sempre più dell’idea che questa storia del grigio abbia stufato. Va bene su tutto, ma certe volte una cosa o è bianca o è nera. Dopo aver guardato per anni l’enorme cartellone pubblicitario di uomini e donne votati al successo, t’aspetti di trovare la chiave giusta che ti permetta di entrare nell’empireo delle persone speciali. Perciò, una cerca di non essere banale. Sìì speciale, ti raccomandano. Invocano la specialità che loro riescono a decifrare. Non uscire fuori dal seminato è fortemente consigliato. Ma sì, vivere è come recitare: se segui la partitura va bene. Se proprio vuoi esagerare devi premurarti di dare una forma armonica a questa esagerazione. Esagera con arte. Giusto. Ma che fatica. Mica sono Gassman.
Si avvicina un altro inverno ad asciugare panni appesi al bastone della tenda. Bisogna vedere le cose che riguardano tutti, come l’avvicendarsi delle stagioni, nella quotidianità di ciascuno. Allo stesso modo i ‘noi’ dovrebbero essere raccontati spiegando meccanismi unici dal funzionamento complesso. Per esempio, il passo indietro da fare per scongiurare una lite quando l’altro va in cerca solo di quella. La possibilità di accogliere il peggio e il meglio di noi stessi e delle persone che ci sono accanto. Del resto tutto è vanità, tutto passa e pure noi. Alla barista ci vuole che le faccia un complimento per spegnere quella smorfia offesa apparsa sul suo volto a seguito dell’exploit dell’elefantino che è in me. ‘Come sono belli i tuoi capelli e tanti’, ha detto lei. ‘Non me li pettino mai, chè sono ricci e non ho bisogno’, ho risposto, ‘se li avessi lisci sembrerebbero spettinati’. Lei li ha lisci e ci è rimasta male. Per rimediare ho aggiunto un’osservazione: i suoi stanno meglio perché sono più scuri dei miei. Lei ha detto che è vero, si sente vittoriosa e io sono contenta. Stare dietro agli spot istituzionali per contro è una gran rogna. Il posizionamento nella società dicono che sia molto importante. E giù a posizionarti. Se sei posizionato bene nessuno ti rompe le scatole (mi dici niente!). Dopo aver svolto un’accurata indagine, deduco che io non vivo nel lusso. Oddio, per me sarebbe un lusso coltivare la terra e vivere di quello (vedi diatriba me/inps a mo’ di esempio). Tuttavia, il cambio epocale non è favorevole alla condivisione di idee e al dispiego di forze in vista del raggiungimento di un fine comune. Checche ne dicano è così, non c’entra solo il capitale. Come accennavo, alcuni fatti mi hanno rischiarato le idee sulla mia condizione economica. Il feedback oggi come oggi è importantissimo, noi capiamo chi siamo anche dalle reazioni degli altri. Ecco, l’altro ieri la reazione della shampista ha contribuito a chiarire a me stessa la mia posizione sociale. L’ho incontrata al casalinghi, detto anche cinese sotto casa. La conobbi qualche mese fa, perché mi regalarono un buono da spendere dal parrucchiere dove lavora. All’inizio sorrisi e complimenti, la cliente è sacra. Ma io ero una cliente per caso, nel tempo lo hanno capito. Perciò adesso mi saluta con la puzza sotto al naso, forse imitando la titolare, la quale a sua volta porta avanti il lavoro di differenziazione sociale svolto incessantemente dalle clienti abbienti, quelle che si possono permettere il parrucchiere con cadenza settimanale. Io perlopiù semestrale. Sciolto un altro nodo, rimane il fatto di andare al bar in fondo al vialone a prendere un caffè con panna che per me rappresenta un lusso. La sequenza è questa: prendere il caffè, entrare in un grande magazzino per provare un profumo, poi ritornare a casa. Un po’ di gioia quasi gratis ci vuole.
A forza di raccomandarci di diventare imprenditori di noi stessi alla fine ci diventeremo, peccato che intanto i 30 sono arrivati a quota 50 e tutti insieme. Se fossi un’operatrice bancaria, sottopressione da parte del direttore, direi a me stessa, seduta dall’altra parte della scrivania, che serve una garanzia per giustificare il prestito. Innanzitutto c’è da capire chi ha investito in te in passato, trattasi di un investimento a lungo, medio o breve termine? Le probabilità di riuscire nell’intento sono considerate un po’ approssimativamente da fattori quali il capitale umano e sociale. Sempre di capitale si tratta. Il margine di rischio c’è, come in ogni avvio d’impresa. Quello che conta è ridurlo al minimo. Allora shakeriamo il livello di capitale umano e sociale, luogo di residenza, sesso, età. Il risultato completa lo studio di fattibilità dell’impresa, già iniziato prima di entrare nella banca immaginaria, dove sei l’utente, l’operatrice e il direttore. Dunque, calcolatrice alla mano, ti tocca promuovere te stessa nella pagine del mondo attuale, troppo grande e troppo piccolo al tempo stesso. La tua schienuccia che se ne va in giro a realizzare l’impresa, l’amore che senti per te stessa e che gli altri non sempre capiscono, l’accettazione docile di un imprevisto diventano pezzi in più di un puzzle già risolto. Eppure ci sono, andranno a completare un altro quadro del reale, più personale, ma poco condivisibile, a causa della solitudine e della sensazione che manchino parametri comuni in grado di farci capire dagli altri. Un bel paradosso in un mondo iperconnesso, in cui mancano i segni che rimandano alle cose più o meno bene, dove manca lo spazio per il mistero, quello spazio in cui ciascuno vede quello che vuole. Vagando a caso, altro che marinai ritti davanti al timone, il mondo c’illude che possiamo fare tutto e il suo contrario, in modalità no limits. Tanto nulla cambia, come se non esistessimo e fossimo solo fantasmi. Considerato che non c’è scampo all’illusione, mi piacerebbe scegliere l’illusionista. Non uno di marca, bensì sempre il solito caro corso dell’esistenza, perlopiù ingovernabile, nella cui sorte ci ritroviamo. Allora sì che staremmo tutti sulla stessa barca.
mgs