Le parole di una canzone si srotolano veloci nella bocca di un rapper. Due ragazzi, dal fondo di un autobus, seguono il ritmo con la testa, guardando i loro pensieri fuori dal finestrino. La gioventù, in questo Paese, è un concetto, un’astrazione. I giovani fanno volume, ma esistono solo nei versi di un rap. Due ragazze straniere chiedono informazioni al conducente dell’autobus che, tutto ringalluzzito, risponde e se ne vanta. Raggiunge i colleghi e scambia qualche parola con loro. Poi, di tacito accordo, il gruppetto si mette in posa. Occhiali da sole, gambe aperte per mostrare maggior sicurezza, aria spavalda: sono i maschi italiani. Si pavoneggiano quando riescono a dialogare con una donna, ma il fascino è solo un dettaglio inutile. L’importante non è la conquista del cuore femminile, ma la stima degli altri maschi. Forse, in loro alberga un’omosessualità latente. Alcuni odiano le donne, perciò le maltrattano. Le sottomettono villanamente per affermare la loro superiorità. Obbediscono a un clichè e scimmiottano i personaggi in vista che usano il sesso femminile per acquisire carisma e prestigio. Certo, in una società non sessista sarebbero considerati dei poveretti, ma qui ottengono l’applauso e la luce dei riflettori sempre puntata sulle loro facce idiote.
Il tempo delle feste sospende il tempo ordinario, conferma l’abitudine nel rito e negli eventi che si attengono al solito copione. In questo tempo sospeso la prepotenza si addobba a festa, la cattiveria e l’egoismo quasi spariscono e tutti fanno finta di essere davvero buoni. Sennonché, negli occhi di un popolo imbarbarito da anni, attraverso sguardi respingenti, riecheggia il malanimo. L’Italia ha diffidato la vita e il cambiamento in tutte le forme. Delle ragazzine, non più di sedici anni a testa, sfoggiano il loro anellino antimolestie. Se la scena avesse una colonna sonora sarebbe un controcanto rap al femminile: ‘Se apparteniamo a qualcuno non ci potete assillare/ poi, magari, coviamo un risentimento colossale/ da arrivare a un grado tale di cinismo e frustrazione/ da non vedere altra soluzione/ che rovinare l’esistenza della donna che pensa e dice/ a maggior ragione se ci capitasse di incontrarne una felice’. Prolifera il numero delle patite degli indicatori di status che, da un cantuccio riscaldato, ma angusto, guardano la libertà. Sanno cosa dovrebbero sopportare se vi si accostassero e sono invidiose del coraggio della donna che abita in sé e nel mondo. La cosiddetta razionalità dell’organizzazione sociale non vieta esplicitamente di andare oltre la scorza del quotidiano, ma la considera un’attitudine per persone complicate. Comunque, il non detto comincia a fare rumore e chiede parole per esistere. Chissà se qualcuno si è accorto di intere generazioni di donne ammansite da una razionalità che razionalizza gli stereotipi e la discriminazione sessuale?. Le opzioni sono due: vegetare in anestesia o parlare, rischiando di essere risucchiate dal gorgo rapace del pregiudizio per combatterlo. Lo spettro delle scelte femminili ha subito una strettoia, dai buoni propositi libertari nati durante la rivoluzione culturale alla contemporaneità da inquisizione. Però, i sogni rimangono grandi e più di ogni tanto un fulmine illumina i volti delle donne. In un mondo che ha bisogno di ridefinire la realtà ogni giorno perché ha perso coscienza di sé, la passione non basta. L’ardore può diventare un intralcio, come i clochard ai bordi delle strade, pietre d’inciampo per lo sguardo perbenista, fastidiosa pulsione a vivere non catalogata né catalogabile. La passione ha bisogno di esprimersi. Siamo animate da pensieri di riscossa, quando essi poggiano sulla fiducia nella loro realizzazione, mentre brandiamo sogni, per avventurarci nel mare della vita, lottando contro le ipocrisie e la malafede istituzionalizzate. Un ceto medio piccolo borghese, convinto di possedere grandi virtù dopo aver dato il peggio negli ultimi cinquant’anni, da giù ci richiama all’ordine, indicandoci il bitorzolo per ‘correggerci’. Da sole potremmo perderci, ovvero potremmo vivere, seguire le nostre idee, fare e sbagliare, senza perderci d’animo. Niente da fare, se decidiamo, voliamo alte e non torniamo più indietro.
L’immaginazione femminile è ‘troppa’, ma può dare vita a pregiati scampoli di realtà, dialoganti con altri scampoli di realtà. Gli uomini hanno immaginazione, anch’essi troppa, ma, quando viaggiano con la mente, un privilegio mai messo in discussione, legittima i loro pensieri. Così, senza incontrare resistenza, creano la visione del mondo dominante, strutturata sulla classificazione della realtà secondo categorie, gerarchie e dualismi. Secondo la cultura maschile la donna ha una fantasia debordante, ‘pericolosa’ se non diluita in un pastone sentimentale da romanzo d’appendice. In realtà, la vivacità immaginativa è una qualità fondamentale per produrre opere di ingegno e di grande valore artistico. Nel definire eccessivo l’estro femminile, l’obiettivo è quello di inibirlo, ma, se la fantasia per gli uomini rappresenta una dote, deve essere così anche quando la visionarietà è sessuata al femminile. La sensazione, però, è che l’esondazione dell’immaginario delle donne imploda o svanisca nei pensieri senza voce, come bolle di sapone. Allora, se nel traffico o in coda alla posta ci viene voglia di svagarci con l’irriverenza di un rap femminista l’incipit potrebbe suonare così: ‘Ti guardo perché vivo/ Uomo: che ti fa tremare?/Non ti voglio sfidare/ neanche ti sono complementare/E lascia che ti dica una parola amico mio/ il privilegio di desiderare ce l’ho anch’io/ a dire io voglio, io non voglio son capace/e non cambierò perché sono umana e questo non ti piace/ Hai paura di me e mi aggredisci/, pare che più che camminare tu strisci/Il tuo ringhio spaventato contro il mio sorriso è un indizio/ voglio definirti e ti meriti un giudizio/ nei roghi che hai acceso per bruciarmi viva/il mio essere donna ti infastidiva/Se il mio amore e il mio impegno rappresentano un errore, rinuncia al titolo di signore/E quando ti sorrido sii gentile/ non vile/ almeno onesto nello scambio/ e fa vedere che la stima che hai di te non supera il livello del calcagno’. Gli uomini prevaricatori e prepotenti ci sono, quelli affetti da gallismo sono un’altra cosa. L’inibizione della vivacità e del talento femminile attraverso la mortificazione e l’umiliazione è una forma di violenza. Se gli altri uomini li redarguissero e se non avessero uno stuolo di donne rincitrullite a portali sul palmo della mano, se la pianterebbero e forse ci sarebbero meno episodi di violenza di genere. Comunque, la realizzazione personale delle donne non è legata ai comportamenti e agli atteggiamenti degli uomini. Il percorso, nell’Italia maschilista, è impervio, ma non è impossibile.
Manuela.