Le stazioni ferroviarie dei sobborghi sono galline in posa per la cova. Alcune ispirano tenerezza come l’odore del caffè del mattino, con le tendine bianche e rosse alle finestre, i saluti e gli abbracci. Nelle stazioni di periferia gli occhi luccicanti si dicono parole coraggiose, che saranno imbarcate nei vagoni e portate via, per dimenticarle meglio. Gli istanti più importanti e luminosi della vita la gente li chiama ombre, incespicando nel sentimento, rifiutandosi di accogliere qualcosa che debordadai limiti delle figurine di una decenza media. Quel qualcosa turberebbe il pieno di false sicurezze con l’incertezza che tende all’infinito e ne hanno paura. Pretendono poco, ma quel poco deve essere ben definito e vivere nelle gabbie non li disturba. Anzi li vedo che lisciano le sbarre, ci si strusciano addosso con piacere. Esseri dalla forma ibrida, non più bestie, ma neanche umani: usano male la coscienza e hanno perso l’istinto. Stratificati nelle gerarchie sociali, i più istruiti sono anche più volgari di quelli livellati ai gradini in basso, ma complementari gli uni agli altri.
Le stazioni si stagliano nel paesaggio della periferia cittadina, quasi fossero messe lì a forza, intorno non c’è un negozio né un bar, né un’edicola, niente. Alle strade poste agli orli della città non compete l’assomigliare ai fiumi, ciò vale solo per le vie di campagna. Quelle strade periferiche invece sono percorse da auto infuriate. Sotto al sole di primavera le sterpaglie subentrano ai mucchi di case, sfoltite man mano che si esce dal centro urbano. Il far west, la stazione ferroviaria in periferia fa pensare al far west. La città è un far west. Al mattino nel cuore della metropoli la gente, chiusa dentro involucri di acciaio, scatena l’inferno. Nelle strade la gente scatena l’inferno, poi negli uffici e ancor prima nelle case. I prodotti urbani nocivi e annoiati e nocivi perché annoiati, sono in cerca di qualcosa che gli dia un’emozione, la parvenza di vivere. Furibondi e furibonde perché hanno rotto il giocattolo. Poverini, vorrebbero provare dei sentimenti e chi glielo impedisce? Che ne provino. Vorrebbero vedere più bellezza intorno a sé. E allora? Che la vedano. Donnette e omuncoli guidano col mento all’insù, chiusi nel personalissimo regno delle loro macchinette. Ostentano sicurezza nel possesso dell’auto, segno distintivo di ricchezza e motivo di tronfia soddisfazione, entrambi strettamente connessi all’aridità d’animo dei gamblers di cui fanno parte. La forestiera ai sobborghi osserva la cappa cittadina, dove svolazza un arazzo dagli angoli sfilacciati. Lei è forestiera in patria, ma nuota a suo agio nelle zolle di libertà dai contorni sfrangiati.
La periferia romana ha qualcosa di speciale, ospita i campi rom. La straniera nuota in quei mari e, ad un tratto, vede apparire le zingare con pargoli a seguito. Entrano in scena con fare risoluto, scostando un sipario immaginario. Sono armate di carrello per la spesa, hanno capelli neri raccolti in trecce o code, da cui fuorisce qualche ciuffo ribelle, vestono abiti colorati su cui spiccano rossetti dai colori accessi. Camminano sulle strade pensate per far sfrecciare le automobili. Procedono in fila indiana per non farsi arrotare. La forestiera le imita ben volentieri. Cammina anche lei nel deserto ai bordi della città. Nel modo in cui sono apparse le zingare così appare un grande cancello, che si apre su un comprensorio. Sembra l’atrio, l’inizio di qualcosa. Eppure il luogo non è gradevole dal punto di vista estetico, cioè è brutto. Sulla destra c’è un camion che scarica spazzatura, al centro un casotto e dietro dei prefabbricati: le case dei rom. A sinistra, immediatamente a ridosso dell’entrata, una siepe brucia producendo delle fiamme vere. Il fumo nero non impedisce di vedere due zingari che sventolano come bandiere, sopra una montagnola, subito dopo l’entrata. Vestono con camicie bianche, pantaloni e giacche nere e ridono. Ridono e le loro figure ondeggiano, vaghe e sfocate dal fumo. Ridono tra l’immondizia. Ridono noncuranti di tutto, che, forse, neanche vedono. Un’anziana donna rom parla con il personale del casotto. La forestiera si accinge a fare lo stesso: ‘Guardi, c’è una siepe che brucia!’. Il personale annuisce e risponde a modo. Sarà rassegnazione, ma il ponte di parole emette un bagliore, una speranza strampalata. In una realtà dove ad ardere non è più la passione negli occhi della gente, almeno che brucino le siepi. Sulla convenienza di attizzare gli animi, la forestiera pensa a questo. Chi ne trarrebbe vantaggio? Alcuni no, altri sì e desidera ridere come gli zingari e malgrado l’immondizia tutt’intorno.
Manuela.